Le idee di salute e di malattia - Terza parte
Abstract
Le idee di salute e di malattia appaiono immediate e semplici e non viene di solito condotta una riflessione
sulla loro formazione. Si tratta invece di due condizioni della vita che non sono rigidamente separate. Non è
possibile dividere in modo sicuro uno stato di salute da uno di malattia, in quanto questi momenti non possiedono una semplice caratteristica biologica, ma sono anche il frutto di valutazioni di tipo culturale, piuttosto che medico. Accettare la complessità che precede e sostiene lo stato di malattia, oppure quello di salute, significa anche accettare la propria condizione umana e la propria fragilità, smettendo di inseguire a tutti i costi stereotipi di apparenza e di benessere che possono generare un sentimento di inadeguatezza legato a logiche di consumo e non di cura.
Articolo
Alla base della difficoltà di definire il concetto di salute non è stata tanto l’impossibilità di poterne dare una definizione universalmente accettata, quanto piuttosto l’impaccio nel precisare un criterio di normalità utilizzando la rassicurante logica binaria di derivazione aristotelica. Le persone non sono mai infatti completamente sane oppure completamente malate, nonostante la metodologia scientifica cerchi di inserire forzatamente gli esseri umani in queste due categorie artificiose. Definire questi due stadi, la salute e la malattia, attraverso la logica del tutto o nulla risulta essere una facilitazione statistica, mentre si rivela un vero e proprio fallimento epistemologico. Dal momento che l’essere umano deve essere considerato come un’entità formata da molto di più della somma delle cellule che lo compongono, dei suoi organi e del suo sistema nervoso centrale, dobbiamo ricordare come nella sua dimensione di persona assistiamo a una valutazione di tipo culturale piuttosto che biologico. La componente organica si fonde con quella psicologica e sociale in modo inestricabile, in un contesto storico di riferimento ineludibile. Un mileu, quello psicologico, sociale, biologico e storico, che permette di valutare lo stato di salute oppure quello di malattia non solo come un criterio assoluto quanto piuttosto come un indice di sopportazione del disagio esistenziale. Sappiamo che nessun essere vivente è mai, in nessun momento della propria esistenza, completamente sano o totalmente malato. I suoi meccanismi di omeostasi e di riequilibrio dalle influenze esterne sono capaci di assicurargli una condizione di relativo benessere in contrasto con le forze che si oppongono a una condizione di vita soddisfacente. Se riduciamo il concetto di salute a una mera visione quantitativa del numero di anni vissuti tutto potrebbe sembrare più semplice. A quel punto basterebbe fermarsi a valutare l’incremento dell’aspettativa di vita e tutto finirebbe in questo contesto. Tuttavia è nostra comune esperienza che vivere una vita lunga e quasi interminabile potrebbe non bastare, potrebbe non essere sufficiente a compensare un sentimento di incompletezza esistenziale che genera angoscia, un sentimento con il quale tutti, nessuno escluso, rischiamo prima o poi di fare i conti. Senza questa disposizione dell’animo umano non esisterebbero le Arti e neppure le Scienze, non esisterebbe neppure il desiderio di conoscenza cui siamo in un certo senso condannati, dal momento che come specie abbiamo rotto il patto di acquiescenza al destino naturale dei viventi. In un passato remoto gli esseri umani si sono ribellati al loro programma di morte e di una fine che ritenevano precoce, un esito senza salvaguardia della loro individualità. In questo modo hanno inaugurato un’epoca diversa, basata sul tentativo di conoscere il mondo che li circondava e di trovare in questo le risorse per migliorare la propria condizione. Affermare la propria dignità di individui cui doveva essere riservato un tempo diverso, più esteso di quello breve e previsto dalla propria condizione naturale e destinato per prima cosa alla riproduzione della specie. Un compito cui erano sufficienti solo tre decenni di vita o poco più. L’Organizzazione Mondiale della Sanità si è resa conto della difficoltà di poter dare una risposta esauriente a cosa sia la salute e ha promosso nel corso degli anni una serie di conferenze internazionali intorno alle problematiche e agli obiettivi di miglioramento delle condizioni sanitarie su scala planetaria. Un obiettivo ambizioso, ma in pratica irrealizzabile, come se l’umanità avverta ogni tanto il bisogno di illudersi di poter migliorare le condizioni di vita di una parte rilevante della popolazione mondiale evitando di confrontarsi secondo il principio di realtà con i problemi posti dalla politica e dall’economia. Nella Prima Conferenza Internazionale sulla Salute, convocata in quella che sarebbe divenuta l’ex-URSS nell’anno 1978, venne elaborata la Dichiarazione di Alma Ata sulla promozione dell’assistenza sanitaria di base e sulle possibilità di sviluppo dei popoli da un punto di vista economico e sociale. La discussione si spostò rapidamente dai presupposti medici per approdare a un tentativo, solo annunciato in verità, di modificare le condizioni sociali e attraverso queste influire sul destino delle persone. Anche la successiva Conferenza di Ottawa, che ebbe luogo nel 1986, rimase a livello di una dichiarazione di intenti caratterizzata da un idealismo un po’ approssimativo, tanto da affermare in un passaggio del documento conclusivo che: «La promozione della salute è un processo che permette alle persone di aumentare il controllo su di sé e migliorare la propria salute». Preferisco non infierire sulla valutazione concettuale di una frase scivolosa come «il controllo di sé», talmente generica e pretenziosa da apparire di una sconcertante superficialità visto il contesto di esperti in cui è stata elaborata. Resta da dire che anche le conferenze successive si sono spinte in generiche affermazioni di principio sulla necessità di migliorare e di difendere l’ambiente e di dare al maggior numero di esseri umani la possibilità di poter scegliere degli stili di vita sani. Affermazioni condivisibili, ma che sembrano fatte per un’umanità artificiosa. Per un insieme teorico di persone e un corpo sociale ipotetico che non esiste nella realtà, quasi fossero un insieme di abbronzati individui che si rincorrono al sole di una spiaggia californiana o tropicale, oppure attori inconsapevoli di una serie televisiva, piuttosto che uomini capaci di assumere in sé una parte ancora piccola della sofferenza e delle privazioni in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Secondo l’aspettativa e la fiducia nella medicina scientifica che regnano sovrane in tutto il ricco mondo occidentale ci si aspetterebbe di poter stabilire dei confini ben definiti tra la salute e la malattia, una delimitazione che paradossalmente sembra oggi ancora meno delineata rispetto ai secoli passati. Si sono create situazioni ambigue che accrescono l’incertezza di una definizione precisa tra questi due termini. Pensiamo alla possibilità di ottenere su larga scala e con un ingente impiego di mezzi invece di una guarigione totale, che comporti il ritorno a una condizione di normalità, uno stato di cronicità controllata della malattia. Si tratta di una scelta che avviene attraverso le moderne chemioterapie antitumorali, oppure nell’utilizzo della chirurgia vascolare più avanzata e magari ricorrendo alla possibilità dell’innesto di protesi articolari per ogni tipo di giunture in cui si esercita con soddisfazione ed efficacia la moderna chirurgia ortopedica 1.
L’evoluzione storica e culturale che ha portato a promuovere con un grande utilizzo di risorse uno stato teorico di salute ottimale ha comportato il doversi confrontare con alcune idee di fondo. La prima di queste deriva dall’esistenza di un atteggiamento positivo verso l’uomo. Il prendersi cura di un altro essere umano risulta alla base di ogni articolazione civile. Un sentimento di compassione verso l’altro che germoglia a sua volta dal confronto di personalità e di idee. Si tratta in campo medico, ma non solo, di un’inclinazione istintiva e sorretta da due esigenze primarie: il difendere la vita e l’allontanare almeno temporaneamente la presenza del dolore e della morte. Oggetto della compassione umana diviene l’uomo e il suo corpo, un valore da preservare e da difendere. Tuttavia l’idea stessa di corporeità dell’individuo e il modo con cui i corpi e le malattie sono stati vissuti è cambiata nel tempo a seconda dei contesti umani e delle aspirazioni culturali. Questo presupposto è stato evidenziato dall’antropologo Marcel Mauss (1872-1950) nel suo lavoro le Tecniche del corpo del 1935/36. Nipote e allievo del sociologo e filosofo Émile Durkheim, Mauss studiò le tematiche legate al sacrificio rituale come un mezzo di comunicazione codificata tra il divino e l’umano 2.
Il corpo poteva essere definito come un primo strumento adoperato dall’uomo per intervenire sulla realtà. Un uomo che apprendeva storicamente e culturalmente come utilizzarlo attraverso delle tecniche mimetiche e imitative di un adattamento al proprio contesto naturale e sociale. Tecniche e ritualità che gli venivano insegnate fin dalla più tenera età, quando da giovane apprendeva come relazionarsi con i propri simili e come orizzontarsi nel mondo multiforme e spesso pericoloso che lo circondava. Il nostro corpo, così come siamo abituati a concepirlo, a pensarlo e a viverlo, andava considerato come l’esito finale di alcuni processi antropologici storicamente situati. In questo percorso di formazione un ruolo importante ha avuto nella cultura occidentale quella che è stata definita come la Dicotomia Cartesiana, cioè la distinzione operata dal filosofo francese René Descartes (1596-1650) tra la Res extensa (la materia) e la Res cogitans (la mente). Questa semplificazione concettuale, efficace da un punto di vista descrittivo e difficile da contestare per molto tempo attraverso delle ipotesi logiche alternative senza le moderne acquisizioni delle neuroscienze, ha permeato di sé tutto l’itinerario conoscitivo e di progresso scientifico dell’Occidente a partire dal XVII Secolo 3.
La Res extensa si poteva considerare come una qualità posseduta dalla corporeità visibile, percepibile attraverso gli organi di senso, che rispondeva alle leggi fisiche e della meccanica. Poteva essere indagata attraverso la Fisiologia e le Scienze naturali, fornendo dei risultati apparentemente regolari, condivisibili e trasmissibili. La Res cogitans, con cui Cartesio immaginava la personificazione della coscienza pensante dell’essere umano, si poteva invece definire come un quid pensante, un’entità presente in ogni individuo, il quale otteneva attraverso di lei la consapevolezza dell’unicità del proprio essere. Rappresentava una componente dell’uomo di tipo immateriale, non misurabile attraverso le leggi della Fisica e delle Scienze e i loro strumenti di controllo. Un costituente psichico che era possibile indagare solo attraverso la psicologia e le scienze umane. Cartesio condusse il ragionamento immaginando l’esistenza di un ipotetico genio malevolo che tendeva ad ingannarlo nell’elaborazione concettuale. Il filosofo francese concluse l’argomentazione in poche righe, le quali segnarono tuttavia una tappa fondamentale nell’elaborazione intellettuale della specie umana:
Circa duecento anni dopo, nella valutazione filosofica di Martin Heidegger (1889-1976) venne posta una differenziazione tra il Körper (il Corpo) e il Leib (il Corpo-vivente). Il Körper rimandava all’idea del corpo-oggetto, del corpo fisico, mentre con la parola Leib Heidegger intese un corpo-vivente, un corpo-vissuto, un corpo di tipo soggettivo come veniva avvertito da chi lo stava vivendo. Attraverso il tentativo di definire meglio la propria individualità e di provare anche a sé stesso e in modo sicuro di possederla l’uomo si era di fatto condannato a rinchiudersi in una gabbia costituita dalle definizioni da lui stesso elaborate 4.
Nel corso dei secoli sono stati fatti numerosi tentativi di uscire da questa visione dualistica del modo di intendere la corporeità, basti pensare alla visione filosofica di Baruch Spinoza (1632-1677). Ma il pensiero di Spinoza che riusciva a ricomprendere nella sostanza delle cose sia la loro dimensione ideativa che quella legata ad un’estensione fisica, fu osteggiato dalle confessioni religiose del tempo. Le idee del filosofo olandese, la sua integrità morale, la sua difesa a oltranza della libertà di pensiero dell’individuo, mal si adattavano ai compromessi 5.
Appariva più semplice e di più facile applicazione tenere separate le due entità, materia e mente, utilizzando lo strumento cognitivo cartesiano, se non altro perché in questo modo la religione e la scienza avrebbero conservato i rispettivi campi di influenza senza danneggiarsi a vicenda entrando in contrasto. Lo stesso Cartesio, che certo non era un cuor di leone, rimase particolarmente impressionato dalla condanna di Galileo ad opera del Sant’Uffizio nel 1633. Il filosofo francese cercò pertanto di allontanare i sospetti dell’Inquisizione a riguardo di una sua possibile condotta eterodossa 6.
Le problematiche relative ai rapporti tra mente e corpo sono intricate e hanno oscillato per secoli tra una prospettiva di tipo riduzionista, per la quale l’anima e il pensiero erano null’altro che entità materiali di cui non si riusciva a delimitare con sicurezza le proprietà e una visione ideologica di tipo più spirituale. Questa rivendicava l’autonomia del pensiero come un’entità dotata di una propria specificità che l’affrancava dalle ristrettezze della materia. Alla fine del secolo scorso due studiose statunitensi, Nancy Scheper-Hughes e Margaret Lock, hanno proposto un diverso modo di considerare il corpo umano. Hanno tentato di superare la rappresentazione cartesiana ipotizzando la presenza di un corpo storico, un insieme costituito dalla mente del soggetto, dalla materia e dalla realtà socio-culturale in cui la struttura antropologica e biologica della persona veniva a collocarsi. Le categorie, le rappresentazioni e le interpretazioni del mondo esterno che venivano formulate si sarebbero integrate tra di loro come parti costitutive del corpo in un senso più esteso, dando luogo ad un’architettura culturale oltre che struttura fisica. Il corpo umano diveniva un tramite di comunicazione perfettamente integrato nella società dell’immagine, dell’apparire e naturalmente del comunicare:
Seguendo questa interpretazione si può comprendere il senso di disagio che il malato era in condizione di comunicare al proprio medico. Egli avrebbe avvertito una non corretta collocazione della propria personalità nel contesto sociale, una consapevolezza di un’alterazione del proprio io che poteva essere alleviata dalla medicina solo attraverso un diverso modo di intendere la clinica. Il rapportarsi tra medico e paziente doveva essere arricchito e meglio strutturato, accompagnando la raccolta dell’anamnesi in senso tradizionale con delle narrazioni individuali riguardanti nel dettaglio la vita del malato. Racconti condotti magari alla presenza di più interlocutori, come pazienti affetti da problemi di salute simili. Degli interlocutori attenti e non semplici spettatori, con cui le persone malate sarebbero state incoraggiate ad aprirsi, a descriversi da un punto di vista umano piuttosto che come individui sofferenti per una specifica malattia. La narrazione individuale di un’esperienza esistenziale diretta e coinvolgente come la propria malattia poteva aprire delle crepe dolorose anche nella struttura della personalità del curante. La sua solidità psicologica, il suo distacco emozionale potevano essere messi a rischio. La creazione di équipe multidisciplinari, in grado di suggerire delle interpretazioni molteplici della condizione di malattia e di tenere conto degli squilibri di potere presenti nella relazione tra medico e paziente costituivano una possibile soluzione a questo problema. Un insieme di soggetti dediti alla cura era in grado di affrontare con maggiore sostegno reciproco ed efficacia una persona che raccontasse la propria condizione di malato e che fornisse una narrazione coerente del proprio vissuto, anche a costo di perdere una parte dell’empatia con il paziente, ma riuscendo forse a sdrammatizzare il quadro generale. Per dare una forma comprensibile alla nostra individualità e comunicarla, per trasmettere agli altri una nostra identità personale e riconoscibile tra le tante, cerchiamo sempre di rappresentare noi stessi. Utilizziamo dei modelli culturali e comunicativi che abbiamo appreso nel passato e che sono facilmente rappresentabili e comprensibili. Un procedimento da seguire anche inconsapevolmente, elaborando un racconto irripetibile della condizione di esseri umani e della nostra storia. Una narrazione che sa essere particolare e universale allo stesso tempo. Il discorso che ogni individuo elabora quando descrive e illustra ad altri il proprio essere e le proprie aspettative risulta un tentativo di mantenere equilibrate tra di loro l’autonomia e l’autostima. Si racconta come una persona coerente, con il proprio passato e la propria volontà e si confronta con la diversità delle esigenze altrui costituite dalle istanze della famiglia, degli amici e delle istituzioni. Il risultato finale apparirà come la ricerca di una modalità tra come si vorrebbe essere e l’impegno di mostrarsi come si desidera essere visti attraverso un’immagine rassicurante 8. La medicina è stata costretta, seppure in un modo non sempre consapevole, a costruire una propria tipologia di relazione interpersonale passando attraverso delle categorie di tipo descrittivo e di interpretazione soggettiva del paziente. La vista identificava l’immagine anatomica del corpo di un altro essere umano. Lo scrivere dell’ammalato e il parlare con lui servivano a circoscrivere un problema di cui veniva chiesta al medico la soluzione. La descrizione del caso clinico, elaborata e trasmessa agli altri colleghi, contemplava una raccolta di dati misurabili, presentati in modo obiettivo e imparziale e che potessero essere condivisibili. La diagnosi è basata su di un confronto di elementi raccolti con altri forniti dalla conoscenza acquisita attraverso lo studio e l’esperienza. Contempla la verifica di classificazioni prestabilite degli stati di salute e di malattia che costituiscono uno schema autorevole per il medico e per il paziente. La terapia infine utilizzerà l’applicazione di procedure e di comportamenti elaborati nel tempo in base alla dimostrazione della loro efficacia nel procurare un effetto positivo al malato fino alla guarigione e al rientro in una condizione di presunta normalità.
Riferimenti bibliografici
- Jekel J, Katz D, Elmore J. Epidemiologia, biostatica e medicina preventiva. Elsevier: Milano; 2009.
- Fimiani MP. Marcel Mauss e il pensiero dell’origine. Guida Editori: Napoli; 1984.
- Descartes R. Meditazioni metafisiche a cura di Lignani A. Armando Editore: Roma; 2008.
- Abbagnano N, Fornero G. Protagonisti e testi della filosofia 3 vol. 3. Paravia: Torino; 1996.
- Mignini F. Introduzione a Spinoza. Laterza: Bari; 2002.
- Geymonat L. Storia del pensiero filosofico e scientifico. Garzanti: Milano; 1970.
- Scheper-Hughes N, e Margaret Lock M. The mindful body: a prolegomenon to future work in medical anthropology. Med Anthropol Q. 1987; 1:6-41.
- Bert G. Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura. Il Pensiero Scientifico: Roma; 2007.
Affiliazioni
Licenza
Questo lavoro è fornito con la licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Copyright
© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2019
Come citare
- Abstract visualizzazioni - 127 volte
- PDF downloaded - 165 volte