La transizione: aspetti sociali, culturali ed etici di un processo rituale
Abstract
Il processo di transizione viene spesso vissuto come un passaggio di consegne dalla sede pediatrica di cura a quella dell’adulto. L’attenzione degli operatori sanitari, che si riflette nelle procedure che vengono pubblicate e utilizzate nella pratica clinica, è concentrata sulla acquisizione di competenze tecniche, relative alla propria condizione di salute, da parte del minore che si affaccia alla maggiore età e della sua famiglia, piuttosto che sul significato che questo passaggio ha, dal punto di vista antropologico ed etico. Questo è particolarmente vero per quella popolazione di “maggiorenni”, che presenta patologie croniche insorte in età evolutiva, la cui vita è ormai mantenuta ben al di là dell’età pediatrica, grazie a nuove terapie, al supporto tecnologico, alle pratiche rianimatorie neonatali. In questo articolo facciamo particolare riferimento a questo gruppo di pazienti, cercando di introdurre una riflessione etica ed antropologica sul tema.
Introduzione
La popolazione di adulti con patologie croniche insorte in età evolutiva è progressivamente aumentata nelle ultime decadi, grazie ai progressi della terapia medica e chirurgica, allo sviluppo di tecnologia atta a mantenere le funzioni vitali fondamentali, alle pratiche rianimatorie neonatali, presentando così, al mondo della medicina dell’adulto, un insieme di persone con patologie rare, complesse, grave disabilità, terapie farmacologiche complicate e costose, che impatta, in modo significativo, sulle risorse socio sanitarie, sui modelli organizzativi, e determina evidenti cambiamenti nella società e nella pratica clinica.
A tali cambiamenti non è corrisposta, nell’organizzazione sanitaria, la dovuta considerazione di questi pazienti nella cruciale fase della vita, biografica e sanitaria, di passaggio alla maggiore età.
In particolare, le difficoltà nel garantire un efficace passaggio alla medicina dell’adulto per i soggetti affetti da malattie croniche e/o rare e complesse comporta spesso un’infantilizzazione dei pazienti, con conseguenze sul piano individuale, gestionale e sociale. È dunque utile adottare una prospettiva interdisciplinare per esplorare questi aspetti, che risultano cruciali sia per l’esperienza vissuta dai singoli individui affetti da tali patologie, sia per quella dei loro familiari e caregiver, sia poi, più in generale, per i processi socio-culturali che interessano e strutturano un certo sistema medico. Una prospettiva interdisciplinare offre una buona opportunità per riflettere sulla complessità di questi temi, ma anche per elaborare strumenti socio-culturali volti a garantire il passaggio dal mondo dell’infanzia a quello dell’adulto in ambito socio-assistenziale e antropologico in senso lato. In molte società ove si sono affermati modelli biomedici, infatti, il passaggio di un giovane paziente dalla pediatria alla medicina dell’adulto costituisce una delle pratiche, contemporaneamente materiali e simboliche, che contribuisce alla transizione tra due diverse fasi di vita: l’infanzia e l’età adulta.
In ambito occidentale il concetto di infanzia si è originato a partire dal XVII secolo 1. Da quel momento è emersa una precisa rappresentazione del bambino in relazione – e spesso in contrapposizione – all’adulto. Specifiche progettualità socio-culturali sono state adottate in rapporto all’infanzia così immaginata (pratiche educative e psicologiche, istituti formativi, modelli familiari, etc.). I bambini non sono più stati ritenuti piccoli adulti: piuttosto, sono stati progressivamente concepiti come esseri in divenire, orientati verso un preciso modello di umanità – quello rappresentato, appunto, dall’adulto. Quest’ultimo andò sempre più definendosi nei termini di un soggetto razionale, autonomo, competente e in sé stesso completo; per contro, i bambini risultavano incompetenti, diretti da, e verso, un’adultità ben definita lungo una traiettoria predeterminata. Eccoli dunque apparire come esseri umani ancora irrazionali e intrinsecamente incompleti 2.
Diversi studi condotti nell’ambito delle scienze sociali hanno mirato a decostruire simili rappresentazioni. Da un lato si è evidenziata la dimensione sempre dinamica, relazionale e in sé stessa incompleta che caratterizza gli adulti: anche loro sono inscritti entro articolazioni socio-culturali complesse e mobili 3. D’altra parte, sono state rilevate le competenze dei bambini in quanto soggetti in grado di definire obiettivi propri all’interno delle loro comunità, pur se catturati entro relazioni di potere che li collocano in una posizione di subalternità rispetto agli adulti 4-7.
Le ricerche socio-antropologiche hanno peraltro mostrato come le rappresentazioni dell’infanzia e dell’età adulta possano variare (e di fatto esse variano notevolmente nei diversi contesti storico-culturali). D’altro canto, hanno anche rilevato che il passaggio tra queste due fasi della vita (benché diversamente strutturate al loro interno) è pressoché universale e risulta ovunque una tappa sociale importante. In antropologia si è parlato in proposito di una “pubertà sociale” 8 che non coincide necessariamente con la pubertà fisiologica: se in alcuni contesti culturali la prima tende a precedere la seconda, in altri essa la segue. In tutti i casi, però, il passaggio che sancisce socialmente la transizione dal bambino all’adulto contribuisce a un processo trasformativo che interessa sia l’individuo, sia la società. Tale passaggio ha una rilevanza performativa: attraverso l’acquisizione di precise responsabilità e specifici diritti, la ridefinizione delle autonomie politiche ed economiche e le relative forme di riconoscimento, la ristrutturazione dei posizionamenti familiari e delle relazioni sociali, esso conduce a una vera e propria trasformazione psico-emotiva nel singolo. Questi processi agiscono anche sulle possibilità di gestione del proprio corpo e di scelta in materia di cura e salute. In ambito biomedico, dunque, la transizione dalla medicina pediatrica a quella dell’adulto può essere intesa come uno tra gli strumenti in grado di consentire il passaggio.
Per quanto alcune condizioni di disagio cronico, soprattutto nel caso in cui interessino le facoltà cognitive degli individui, rendano ostica questa transizione, tanto più si rivela importante avviare una riflessione su simili processi, che possono venire a configurarsi come veri e propri “riti di passaggio”, ossia pratiche socio-culturali complesse che associano a un fine specifico (in questo caso una differente inscrizione all’interno dei servizi deputati alla cura) un fine più generale, ossia il cambiamento di uno stato (in questo caso la fascia di età a cui si appartiene).
Il rito di passaggio
I riti di passaggio, tema classico in seno alla letteratura antropologica passata e contemporanea, sono stati analizzati dall’etnologo Van Gennep 8 all’inizio del XX secolo. Esplorando una letteratura etnica e folklorica assai ampia e variegata, Van Gennep individuò uno schema generale riscontrabile all’interno di quelle pratiche cerimoniali volte a consentire il passaggio tra differenti dimensioni del sociale: tra queste, ad esempio, le celebrazioni associate alla nascita, al fidanzamento, al matrimonio, alla maternità, i riti funerari e i riti iniziatici. Pur nelle differenze che li caratterizzano singolarmente, questi riti sarebbero accomunati da una struttura tripartita così suddivisa:
- una fase preliminare, o di separazione, attraverso la quale i partecipanti sono separati dal gruppo sociale a cui appartenevano (ad esempio, nel caso qui preso in esame, quello dei bambini);
- una fase liminare, o di margine, in cui i partecipanti si situano entro un “limen”, una sorta di “limbo” sociale che li pone al di fuori del gruppo precedente, ma anche di quello ove saranno collocati in seguito;
- la fase postliminare, o di aggregazione, in cui i partecipanti sono reintegrati nella società di appartenenza attraverso l’iscrizione nel nuovo gruppo sociale (nel caso qui considerato, quello degli adulti).
Van Gennep, come altri autori che in seguito si sono concentrati su queste pratiche, hanno evidenziato la rilevanza che questi rituali assumono a diversi livelli. Innanzi tutto, essi hanno risvolti sia sul piano simbolico, sia su quello concreto. Il passaggio, infatti, riguarda assai spesso un “passaggio materiale” vero e proprio, che implica una separazione fisica dei due gruppi tra i quali avviene l’attraversamento. Così, ad esempio, rivolgersi a un centro dedicato alla cura dell’adulto conduce a varcare una soglia che, corredata dalla dimensione simbolica assunta dai relativi adempimenti burocratici, acquisirà una valenza performativa atta a sostenere il passaggio sia a livello individuale, sia sociale.
La letteratura antropologica, infatti, ha più volte insistito sulla rilevanza di tali passaggi anche a questi due livelli: per il singolo e per la struttura sociale nel suo complesso. La stabilità della società è assicurata da un certo equilibrio tra la sua coesione e la continuità temporale del gruppo, tenendo conto che ogni suddivisione interna è contemporaneamente un fattore di solidarietà e di divisione 9. Così, nella questione qui analizzata, la solidità del sistema sanitario di fronte alle richieste di soggetti con malattie croniche e/o rare può essere immaginata anche attraverso la sua capacità di collocare efficacemente tali soggetti entro gli spazi e i sistemi condivisi o, in alternativa, di saper ripensare alcuni aspetti di questi sistemi.
Per i soggetti con malattia cronica, la cui modalità di essere-nel-mondo è fortemente influenzata dall’esperienza di cura e di care e la cui speranza di vita è oggi prolungata, il passaggio dalla medicina pediatrica a quella dell’adulto si carica dunque di una rilevante portata simbolica, psico-pedagogica, e sociale contemporaneamente. Essi impongono di ricomprenderli efficacemente all’interno degli spazi normalmente deputati alla cura (e alle loro suddivisioni interne); contemporaneamente invitano a riflettere sulle modalità, troppo spesso quasi naturalizzate, con cui pensare il passaggio tra diverse forme di assistenza socio-sanitaria e le sue molteplici implicazioni. D’altra parte, come un altro grande antropologo aveva evidenziato, proprio coloro che si situano in uno stadio liminare – stadio di per sé anti-strutturale, poiché non ricompreso entro le norme sociali consuete - invitano a riflettere sulla struttura sociale nel suo insieme e talvolta a rinnovarla 10.
Nel nostro contesto «le pratiche rituali» che prevedono una pianificazione e una gestione del passaggio dalla medicina pediatrica a quella dell’adulto per i soggetti con malattia cronica e/o rara sono assai ridotte, se non del tutto assenti (in Italia in particolare) 11. Proprio le difficoltà che questa transizione evidenzia, però, ci inducono a riflettere su come essa debba e possa essere pensata, su quali sistemi sociali metta in relazione tra loro, sulle criticità e le sfide che qui vengono configurandosi.
Il termine “transizione”
È la traduzione dall’inglese «transition» “the process or a period of changing from one state or condition to another” (Oxford Learner’s Dictionaries on line).
Non è quindi un trasferimento, ma un insieme di azioni poste in atto da più attori ed “insiemi” di attori, in setting differenti, tanto da poter appunto essere assimilato ad un “rito”, in cui il “passaggio” (transfer) è solo uno dei momenti.
Definizione di transizione in Medicina
Vi sono due definizioni, che possono essere considerate riassuntive delle varie espressioni utilizzate dalla letteratura medica per indicare il processo di transizione dalla medicina pediatrica a quella dell’adulto.
La prima recita: “il passaggio intenzionale e pianificato di adolescenti e giovani adulti con condizioni croniche fisiche e mediche, da sistemi sanitari centrati sul bambino a quelli orientati all’adulto” 12.
L’attenzione qui è posta alla pianificazione del passaggio da un centro di cura all’altro, al “passaggio di consegna” tra sanitari e al bisogno di organizzare, anche burocraticamente, il cambiamento delle strutture di riferimento.
Il processo riguarda, quindi, singoli individui malati (i pazienti), gruppi di individui (come la famiglia del paziente e i team di cura), strutture fisiche (come reparti e centri specialistici), pratiche burocratiche e modifiche dei ruoli sociali.
La seconda, definisce transizione come “il processo progressivo di autonomizzazione mediante il quale giovani con condizioni croniche sviluppano le competenze e si assicurano le risorse necessarie per accertarsi che i loro bisogni sanitari siano soddisfatti quando transiteranno dall’adolescenza all’età adulta” 13.
Qui si tratta di un processo di “formazione morale”, di ausilio allo sviluppo dell’autonomia e della capacità decisionale degli individui minori d’età.
Il termine “transizione” viene utilizzato, in questa seconda accezione, per sottolineare il bisogno di preparare i pazienti alla titolarità decisionale e al cambiamento di status che saranno acquisiti con il raggiungimento della soglia convenzionale della maturità legale, la maggiore età 14.
La letteratura che riguarda la “transitional care” si è concentrata, in questi anni, moltissimo sulla necessità di accrescere le competenze dei giovani con patologie croniche, complesse, ovviamente in base alle loro reali capacità, sul self-management, sulla acquisizione di particolari e pratiche capacità gestionali relative alla propria patologia (programmare un appuntamento, gestire un farmaco o una richiesta di piano terapeutico, per esempio), ritenendo questi gli elementi in base ai quali decidere l’adeguatezza della preparazione del singolo individuo alla transizione. La autonomia morale del giovane, che comprende la capacità di ragionare sulle decisioni sanitarie, il portare la propria opinione, il valutare se i principi basilari di beneficenza, non maleficenza e giustizia siano rispettati nella propria storia clinica, sono poco considerati sia dai professionisti sanitari che dai caregiver e famigliari. Questo è un punto particolarmente critico, che va ricercato in età pediatrica e sostenuto nel giovane adulto, e che è, comunque, alla base delle scelte sanitarie, ossia del consenso informato in senso lato 15.
Gli attori della transizione
Nella “transizione” abbiamo a che fare con il concetto di complessità e con «singole società complesse», quella del mondo sanitario della pediatria, quella del paziente/genitori/caregiver/famiglia allargata, quella della medicina dell’adulto, che agiscono tutte in autonomia e che sono però in relazione. Sono le relazioni che «modificano» il sistema e gli effetti delle stesse restano anche quando la causa è superata.
Analizziamo brevemente i principali attori coinvolti, nelle Tabelle I e II.
Criticità
Il passaggio può risultare insoddisfacente per mancanza di percorsi codificati, simboli, azioni e interazioni che lo rendano possibile.
I pazienti/famiglia rimangono così sospesi nella fase liminare o addirittura bloccati in quella francamente preliminare costituita dall’assistenza pediatrica, senza riuscire a transitare con esiti che pongono a rischio sia gli aspetti di salute del/della giovane che quelli psicologici di accettazione della malattia e di autodeterminazione.
Per questi motivi, talvolta, questi pazienti interrompono del tutto l’assistenza, rimanendo di fatto in una zona liminare nella quale non sono garantiti spazi assistenziali di cura, né di care; in altri casi essi tentano di ritornare presso il precedente gruppo di appartenenza pediatrico, ma ciò può comportare il rafforzamento dell’infantilizzazione di individui anagraficamente adulti e può ostacolare l’acquisizione di autonomia da parte loro.
Molti dei sistemi di transizione proposti sono incentrati sulla acquisizione di competenze specifiche, relative alla gestione della propria patologia, più che sulla attenzione alla autodeterminazione del paziente. Questi non sono concetti sovrapponibili, ma complementari e parimenti irrinunciabili in un processo di transizione.
Bisogna anche considerare come le nuove terapie cambino la storia delle malattie croniche, prima confinate all’età pediatrica o di giovani adulti, come, per esempio, nel caso della fibrosi cistica, ma, contemporaneamente, aprano nuovi scenari di cronicità, che vanno considerati e presi in carico nell’età adulta.
Non transitabilità
Vi sono individui con patologie gravissime e complesse per i quali il raggiungimento della maggiore età non comporta alcuna modifica nel proprio status morale e sociale, né sortisce alcun altro effetto significativo in termini cognitivi, biologici o biografici.
Al raggiungimento della soglia convenzionale non seguono le conseguenze che negli altri casi modificano le condizioni di vita.
Le caratteristiche dei pazienti rimangono quelle dei pazienti pediatrici, non divengono quelle tipiche degli individui adulti. In termini giuridici, la loro condizione di minorità e la loro interdizione non può essere interrotta. Le specificità per cui si rende necessario il passaggio alla medicina dell’adulto, mettere in campo le transitional healthcare e favorire il cambiamento non risponde ai loro bisogni. Si imporrebbe, ossia, un grande cambiamento nelle vite di queste famiglie che un semplice calcolo costi/benefici sarebbe in grado di dimostrare non essere nell’interesse dei pazienti e dei caregiver familiari.
La permanenza di pazienti, anagraficamente maggiorenni, in ambiente pediatrico può portare però a problemi legati a competenze specifiche del personale, limitate da profili professionali.
I problemi etici prendono il sopravvento, soprattutto quelli legati all’accanimento terapeutico e alle scelte di fine vita. I sanitari del sistema pediatrico possono essere meno propensi e allertati su queste scelte impegnative, ma si stanno sempre più sviluppando competenze in questo senso, in modo da assicurare continuità di cura e care in situazioni particolarissime 21.
Costruire un buon processo di transizione
È fondamentale ragionare e riflettere su come costruire un buon processo di transizione, attraverso la collaborazione di attori con ruoli differenti (pazienti, familiari, team multiprofessionale pediatrico e dell’adulto).
Il focus, come sopra descritto deve essere su:
- l’attenzione al processo di autonomizzazione del paziente;
- l’approccio olistico alla cura;
- l’interdisciplinarità e collaborazione intra- e inter-ospedaliera e con il territorio;
- il lavoro “in rete”, ossia in integrazione e non in competizione, costruendo un sistema basato sulle competenze di ciascun attore, in un clima di condivisione e confronto.
Conclusioni
La transizione è una «necessità» strutturale e organizzativa ma, soprattutto un’esigenza antropologica, etica e sociale del giovane con malattia cronica, del mondo della Pediatria e di quello della Medicina dell’adulto.
È un processo dinamico e non statico.
Abbiamo il «dovere» di affrontare questo tema e proporre soluzioni, affrontando in modo sistematico una realtà complessa, costituita da più sistemi.
Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere anche la «non transitabilità» di alcuni individui che le caratteristiche di dipendenza e le differenti competenze, pur a fronte di un’età anagrafica adulta, collocano indefinitamente entro spazi che non sono semplicemente quelli della medicina pediatrica, né quella dell’adulto. In questi casi, percorsi assistenziali specifici vanno immaginati nei setting ritenuti di volta in volta più adeguati, tenendo conto delle peculiarità di queste situazioni e delle loro specificità soggettive.
Figure e tabelle
Nucleo famigliare | Bisogni | Come è vissuta la transizione |
---|---|---|
Genitori | Un terzo dei genitori pensa a un piano specifico per soddisfare i bisogni del proprio figlio adolescente. Un terzo parla dell’effettiva possibilità di rivolgersi a uno specialista dell’adulto. | Possono percepire un profondo senso di abbandono da parte del sistema sanitario e ritenere di perdere il loro ruolo di custodi della salute dei figli, fatto che può comportare crisi emotive ed esistenziali. |
Adolescenti in transizione | La transizione implica generalmente un distacco da operatori di fiducia. Il passaggio può essere associato all’idea di un peggioramento della malattia o, addirittura, alla morte. | Possono trovarsi a disagio presso la medicina dell’adulto, dove solitamente si tende ad escludere il contatto con la famiglia, considerando come unico interlocutore legittimo il soggetto affetto. |
Fratelli e sorelle | Normalmente sono preoccupati circa le capacità dei loro fratelli/sorelle ammalati nel gestire direttamente la malattia e della loro capacità di autonomia. | Vivono il mondo della medicina dell’adulto come di minor supporto che quello pediatrico. |
Sistema | Ostacoli | Errori |
---|---|---|
Pediatria | Scarsa fiducia nell’indipendenza del paziente stesso Il pediatra ha acquisito competenze e conoscenze della specifica patologia e dello specifico paziente e famiglia in anni di presa in carico e, per questo, è abituato a considerarsi il miglior «medico» in quella particolare situazione. | Trasferimenti immediati, scarsamente pianificati o del tutto imprevisti, spesso a seguito di una riacutizzazione delle condizioni di malattia, possono poi essere vissuti degli utenti come punizioni o rifiuti trasmettere messaggi, anche non verbali, di una scarsa affidabilità del team dell’adulto. |
Medicina dell’adulto | Mancanza di formazione specifica per le patologie considerate “pediatriche” e per la presa in carico globale del paziente. Gli iter diagnostici, prognostici e terapeutici sono centrati sul paziente, considerato capace di autodeterminarsi nelle scelte di cura, e ai genitori non è più riservato alcun ruolo. | La comunicazione con paziente e famiglia, la mancanza di coordinamento con il centro pediatrico e di training di professionisti e operatori sanitari sulla specifica patologia. |
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