OSA al tempo del COVID-19: cosa abbiamo imparato
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La produzione della letteratura riguardante l’associazione tra l’apnea ostruttiva nel sonno (OSA) e il COVID-19 è stata molto ricca fin dall’inizio della pandemia. Gli argomenti che sono stati affrontati hanno riguardato: i possibili meccanismi causali attraverso i quali i pazienti con OSA possono essere a maggiore rischio di morte se si ammalano di COVID-19, la relazione tra OSA ed esiti avversi associati al COVID-19, gli effetti della pandemia su diagnosi, gestione e trattamento dell’OSA.
In merito alla relazione tra le due patologie, è interessante sottolineare che tra i principali fattori di rischio per la mortalità da COVID-19 vi sono le malattie cardiovascolari e respiratorie, il diabete, l’età > 60 anni, l’obesità e il genere maschile, gli stessi fattori di rischio che influenzano prevalenza e severità dell’OSA. A riguardo della correlazione tra OSA e COVID si è cercato di spiegare il link fra le due patologie dal punto di vista molecolare e in particolare il ruolo della disregolazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) e delle molecole della infiammazione. È stato chiarito il ruolo dell’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2), che è il recettore di ingresso del Coronavirus nella sindrome respiratoria acuta grave 1. La proteina spike del SARS-CoV-2 si lega al recettore ACE2 sulla membrana della cellula ospite ed entra negli pneumociti, portando come conseguenza ad una perdita di funzione di ACE2. Pertanto, l’interazione con il SARS-CoV-2 comporterebbe una riduzione dell’attività dell’enzima ACE2 e di conseguenza uno squilibrio che favorisce l’asse angiotensina II (ANG II) e recettori dell’angiotensina I (ATR1) con conseguente risposta di danno polmonare all’infezione del virus. Infatti, una volta saturati i recettori dell’ACE2, che nel RAAS hanno un ruolo antifibrotico, antinfiammatorio e vasodilatante, l’ANG II si lega ai recettori ATR1 sulla membrana cellulare dello pneumocita innescando come conseguenza un effetto fibrotico, proinfiammatorio e vasocostrittore. L’ACE2 è espresso su organi diversi dai polmoni come il tessuto adiposo, il cuore, i reni, l’intestino e i vasi sanguigni. Questa ampia diffusione di ACE2 nel corpo umano e la sua affinità per la proteina spike del SARS-CoV-2 spiega le multiple manifestazioni cliniche che sono state segnalate finora compresa la sindrome respiratoria acuta, ma anche insufficienza renale, danno intestinale e trombosi vascolare disseminata.
Parallelamente, l’obesità è apparsa fin da subito come uno dei principali fattori di rischio per forme gravi di COVID-19. Il RAAS e l’obesità sono strettamente correlati con un aggravamento della malattia che aumenta con il Body Mass Index (BMI). La pandemia si è diffusa negli Stati Uniti, Paese con la più alta prevalenza di obesità e sovrappeso nella popolazione, in un modo estremamente veloce, e l’obesità è stata segnalata per essere il principale fattore di rischio per mortalità e per insufficienza respiratoria che necessita del trattamento con ventilazione meccanica che, non a caso, in questo paese era 10 volte superiore a quello della Cina. L’obesità è responsabile di ipertensione e diabete che sono a loro volta correlati alla gravità della malattia. Il problema può essere visto anche in senso opposto, poiché il tessuto adiposo è una delle principali fonti di molecole della infiammazione, tra cui IL-6, che possono aggravare l’infezione da SARS-CoV-2. In realtà, l’ACE2 è ampiamente espresso nel tessuto adiposo e significativamente più nel tessuto adiposo viscerale che periferico. Di conseguenza, gli individui obesi, specialmente quelli con eccesso di tessuto adiposo viscerale che potrebbe essere in grado di ospitare e immagazzinare un’enorme carica virale, possono sviluppare una risposta sistemica molto accentuata dell’asse ANG II e AT1R, contribuendo allo sviluppo di una forma più grave della malattia 2.
Un altro aspetto della associazione tra OSA e COVID che è stato oggetto di interessanti lavori è quello dell’impatto dell’OSA sugli esiti della malattia da COVID-19 sia come intensità di assistenza respiratoria (NIV o VAM) al momento del ricovero sia come esiti infausti. La maggior parte sono stati studi osservazionali da cui è emerso che i pazienti che avevano una pregressa diagnosi di OSA in base ai codici ICD9 delle cartelle cliniche elettroniche o avevano sintomi riconducibili ad OSA sulla base dell’anamnesi o di semplici questionari, come nell’indagine svolta in tre ospedali di Istambul, erano più soggetti ad avere un quadro peggiore della malattia fin dal ricovero in ospedale e una evoluzione caratterizzata da maggiore richiesta di terapia con ossigeno, NIV e poi intubazione 3.
Un lavoro molto interessante è stato condotto in un ospedale indiano in una coorte di pazienti che, una volta dimessi dalla terapia intensiva, sono stati sottoposti a polisonnografia (PSG) 4. Il numero è limitato, solo 102 pz di cui 67 sottoposti a PSG e di questi il 73% (49 pz) sono risultati avere un AHI > 15/h. Di questi 22 erano stati trattati solo con ossigeno mentre 45 erano stati trattati anche con NIV/VAM. In questo ultimo gruppo le percentuali delle forme di OSA moderato-severa era rispettivamente del 33% e del 42% confermando, pertanto, l’interazione tra le due patologie nel determinare gli esiti negativi. L’OSA agirebbe come fattore facilitatore l’infezione da SARS-CoV-2 che, una volta avvenuta, in pazienti con patologie di base come diabete e obesità, agirebbe come fattore trigger per eventi cardiovascolari, come aritmie, ischemia cardiaca, ipercoagulabilità.
Molteplici sono i fattori prognostici che possono influenzare gli esiti avversi nei pazienti con infezione da COVID-19; una metanalisi che ha analizzato l’associazione di un qualsiasi fattore prognostico con qualsiasi evento avverso ha individuato ben 91 fattori prognostici che hanno dato 11 avventi avversi principali. Tra le 29 associazioni risultate statisticamente significative c’è anche l’OSA 5.
Il trattamento elettivo dell’OSA è la Continuous Positive Airway Pressure (CPAP), inclusa nell’elenco dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) delle procedure generatrici di aerosol ad alto rischio. L’uso della CPAP può quindi esporre le persone nelle sue vicinanze a un maggior rischio di esposizione virale e conseguentemente ad un alto rischio di contagio. Per tale motivo all’interno del mondo degli specialisti che operano nei centri del sonno c’è stato molto fermento per cercare di dare una risposta a tematiche anche abbastanza semplici tipo se proseguire con la terapia, come procedere con l’inquadramento clinico e diagnostico dei pazienti e come fare il follow-up.
Uno dei timori che si è palesato fin dall’inizio è stato che gli effetti psicologici del lockdown da COVID-19 e la paura della aerosolizzazione derivante dall’uso di dispositivi a pressione positiva potessero portare a una ridotta aderenza al trattamento e, come conseguenza, la morbilità e la mortalità dei pazienti con OSA ne sarebbero state influenzate. Uno studio francese ha contribuito a chiarire questo aspetto andando ad analizzare l’impatto del lockdown da COVID-19 sull’aderenza alla CPAP su una coorte di 7485 pazienti valutata tramite telemonitoraggio mettendo a confronto i dati del periodo pre-COVID con i dati successivi al blocco 6. Da questo studio è emerso che, non solo i pazienti avevano utilizzato di più la CPAP (4% di aumento a notte corrispondente ad una media di 15 min), ma soprattutto la percentuale di soggetti che avevano una aderenza alla terapia molto bassa (10 min notte) era diminuita di quasi il 20%. La spiegazione può essere la massiccia comunicazione mediatica sul COVID-19, le conseguenze sull’apparato respiratorio e la paura di essere ricoverati per insufficienza respiratoria. Un risultato simile è stato ottenuto anche negli Stati Uniti dove hanno confrontato i dati di compliance nell’anno precedente con quella un mese dopo l’inizio del lockdown; nonostante il COVID-19 avesse influenzato negativamente la qualità del sonno con conseguente aumento dell’insonnia, non c’era stata nessuna variazione nell’uso della CPAP.
La pandemia COVID-19 ha cambiato radicalmente il funzionamento dei sistemi sanitari in tutto il mondo e ha avuto un effetto rilevante sulla gestione, sulla diagnosi e sul trattamento dell’OSA. Uno studio che ha valutato l’impatto della pandemia COVID-19 sulla gestione dei pazienti con disturbi respiratori nel sonno in 19 Paesi europei, ha identificato una riduzione dell’80% della gestione dell’apnea notturna 7. La maggior parte dei servizi si è limitata al follow-up telefonico e alla gestione dei casi ad alta priorità. I livelli di personale nel servizio di medicina del sonno sono stati ridotti al 25% per i medici e al 19% per infermieri o tecnici rispetto ai livelli pre-pandemici. Studi sul sonno quali la PSG o le titolazioni della pressione positiva in laboratorio sono stati completamente sospesi. L’American Academy of Sleep Medicine (AASM) ha emanato strategie di mitigazione per aiutare i medici di medicina del sonno durante la pandemia. Gli studi domiciliari sono stati indicati come metodo diagnostico preferito. La medicina del sonno durante la pandemia COVID-19, è stata sollecitata affinché rivedesse le modalità di approccio alla diagnosi, al trattamento e dei protocolli di gestione vigenti per l’OSA. Dalla letteratura e dalla pratica clinica emerge come la telemedicina abbia rappresentato e rappresenti un rilevante strumento per la erogazione delle prestazioni.
Riferimenti bibliografici
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- Grote L, McNicholas WT, Hedner J., Sleep apnoea management in Europe during the COVID-19 pandemic: data from the Ueropean Sleep Apnoea Database (ESADA). ESADA collaborators. Eur Respir J. 2020; 55:2001323. DOI
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