La genesi dell’orrore. Nascita e ideologia dell’Eugenetica e delle sue conseguenze - Seconda parte
Abstract
Un saggio dedicato all’origine dell’applicazione pratica delle teorie derivate dall’Eugenetica nel regime nazista. Questa vicenda deve essere conosciuta nei suoi dettagli per meglio comprendere i pericoli che rimangono presenti nella Scienza moderna, la quale tende a seguire in modo acritico il metodo sperimentale senza una riflessione etica indispensabile sulle conseguenze delle proprie ricerche. Gli orrori provocati dalla sperimentazione medica dei nazisti rimangono come testimonianza efficace a non dimenticare questi pericoli e segnano la necessità di migliorare la preparazione dei medici anche da un punto di vista bioetico e filosofico.
Articolo
Sempre a metà del fatale XIX secolo, le operazioni di vivisezione introdotte da François Magendie (1783-1855) negli animali da esperimento e perfezionate dal suo celebre allievo Claude Bernard (1813-1878), avevano aperto la strada al completo dominio dell’uomo sulla natura biologica degli esseri viventi. La brutalità delle dissezioni sugli animali vivi operata da Magendie suscitò scalpore e riprovazione in molti contemporanei per le modalità cruente con cui venivano eseguite. L’avere varcato la soglia dell’utilizzo indiscriminato dei corpi dei viventi, seppure nel caso degli animali, portò il ricercatore a pensare di potere ottenere sempre nuovi e utili risultati estendendo la metodologia della ricerca sul campo. Era stata ancora una volta la Francia a vedere nascere una corrente di pensiero che avrebbe influenzato buona parte della ricerca scientifica dell’Ottocento e oltre. Questa scuola filosofica era il Positivismo. Il termine “positivo” riferito al pensiero era rinvenibile per la prima volta nell’opera del conte Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825), uno dei primi teorici del Socialismo, che lo mise in relazione al campo strettamente filosofico e sociale.
Saint-Simon si limitava a un generico impegno della filosofia per introdurre un metodo di conoscenza modellato sulla ricerca scientifica 1. Altre origini di questa concezione erano da ricercarsi nell’Illuminismo inglese e in quello francese. L’empirismo anglosassone da una parte e le idee del marchese di Condorcet (1743-1794) dall’altra ne erano stati i progenitori. Condorcet vedeva il progresso di tutta la conoscenza umana dipendere dall’avanzamento della scienza. Un progresso presentato come una dinamica positiva in grado di affrancare l’uomo dai limiti posti dalla natura. In questo modo la Storia veniva a strutturarsi come un succedersi di epoche che avevano come scopo la tensione verso l’evoluzione e il miglioramento della condizione umana. Il progresso era visto come un movimento necessario e inevitabile, un cammino obbligato e di tipo provvidenziale lungo cui doveva incamminarsi l’avvenire. Le idee di Auguste Comte, il fondatore riconosciuto del Positivismo, non nacquero dal nulla e l’importanza della loro ricaduta pratica risultò in contrasto con la vita del suo autore, un’esistenza priva di soddisfazioni economiche e morali, vissuta nell’ombra e segnata dalla malattia. Comte era nato nel 1798 a Montpellier, una città del Sud della Francia, la sede di un’antica e prestigiosa facoltà di medicina, da una famiglia modesta e conservatrice, di salda fede cattolica e monarchica. Studente brillante e allievo della celebre École Polytechnique di Parigi, da cui fu espulso per aver partecipato a una sommossa, Comte divenne collaboratore e segretario del conte di Saint-Simon. Studiò matematica e si interessò alle problematiche sociali sulla spinta dei moti rivoluzionari dell’anno 1821 che attraversarono l’Europa 2,3. Animato da un entusiasmo e da una fiducia illimitata nella validità del sapere derivato dalla scienza, Comte elaborò un sistema filosofico che è conosciuto come Positivismo. Questo termine stava a indicare la natura positiva della conoscenza che si sarebbe potuta ottenere attraverso l’indagine scientifica. Una conoscenza che sarebbe stata contrapposta alla nebulosità e alla mancanza di attendibilità della speculazione metafisica. Un ambiente favorevole allo sviluppo del Positivismo fu la situazione culturale che si formò in Europa a partire dal 1830. Furono anni in cui si verificò un’evoluzione importante nella conoscenza delle scienze naturali, vennero introdotte delle nuove applicazioni tecniche nella vita quotidiana le quali furono promosse dalle scoperte scientifiche, come la ferrovia e l’entrata in servizio dei battelli a vapore. Queste moderne e innovative tecnologie influenzarono la società e l’economia attraverso l’importanza assunta dal lavoro salariato di massa che risultò essere il fattore costitutivo della Rivoluzione industriale. Nel suo pensiero, Auguste Comte partì da un principio già formulato da Charles Fourier (1772-1837), un altro socialista utopico al pari di Saint-Simon, secondo il quale le cause primordiali degli avvenimenti naturali non ci sono di regola note ma devono essere soggette a delle leggi semplici e costanti attraverso le quali si possono scoprire per mezzo dell’osservazione scientifica e il cui studio costituisce l’oggetto della Filosofia naturale. Da questa premessa fiduciosa nelle possibilità di conoscenza dell’uomo Comte svolse il percorso della propria ricerca giungendo a definire la filosofia come una “Scienza dei fatti concreti” in contrapposizione a ogni speculazione metafisica. Tra il 1830 e il 1842, superando gravi difficoltà psicologiche ed economiche, Comte scrisse e pubblicò i sei volumi del suo Corso di Filosofia Positiva. Il Positivismo elaborato da Comte era una dottrina filosofica che basava il processo conoscitivo umano sulla sola indagine dei fatti. La certezza relativa all’oggetto dell’indagine derivava esclusivamente da un’osservazione condotta attraverso le regole delle scienze sperimentali e seguendo l’affermazione di due principi: l’esclusione di ogni certezza per fede e l’ammissione che la conoscenza della cosa in sé fosse irraggiungibile. Il mondo percepibile era quindi di natura positiva, in opposizione a ogni speculazione filosofica di tipo metafisico o spirituale. L’unica conoscenza certa era quella posta intorno ai fondamenti di un fatto. Il rovescio della medaglia di tale concezione si legò ad alcune conseguenze pratiche. Il filosofo Emanuele Severino (1929-2020) ha parlato a questo proposito del verificarsi di una “rottura dell’Episteme”, vale a dire della rinuncia alla ricerca del senso ultimo delle cose da parte degli uomini e della loro presenza nella realtà 3. Abbandonando la ricerca del perché di un determinato fenomeno naturale e occupandosi solo della comprensione del come un evento si verificasse in natura, lo scienziato rinunciava a porsi domande di tipo trascendente e attraverso questo comportamento diventava per lui normale, oppure inutile, caricare di significati etici il proprio lavoro. Leggiamo una piccola parte del pensiero di Comte:
Nonostante le affermazioni di Comte, una Scienza che fosse separata da ogni percorso conoscitivo trascendente sulla materia e le sue regole tendeva a produrre delle conseguenze prive di ogni connotazione morale. Tutto diveniva lecito perché era possibile, ogni oggetto diventava sperimentabile, perché il ricercatore si sarebbe basato sul “come” avesse ottenuto un determinato risultato senza alcuna necessità di investigare il “perché”. In questa divisione di fondo, in questa separazione radicale tra i presupposti di partenza della ricerca scientifica e gli esiti del ragionamento filosofico, nasceranno e si consolideranno molte delle conseguenze negative delle scoperte. Nella seconda parte del XIX secolo il progresso scientifico portò a miglioramenti tecnici rivoluzionari che cambiarono il modo di vivere di milioni di persone. Si trattava di una visione del mondo che favorì un genio della chimica come Fritz Haber (1868-1934), uno scienziato di religione ebraica che ideò per l’esercito del Kaiser e l’industria tedesca un processo artificiale di sintesi dell’ammoniaca, l’elemento alla base dei fertilizzanti e un costituente importante degli esplosivi. Haber era un ricercatore che non disdegnò di scoprire e di favorire l’utilizzo dei gas tossici nella Prima Guerra Mondiale. Il suo fanatismo bellico, pur essendo un candidato al premio Nobel per la Chimica, un premio che riceverà nel 1918, spinse lo stato maggiore tedesco a utilizzare per la prima volta i gas tossici a Ypres nell’aprile del 1915. Un modo di agire che rivelava come la scienza non potesse sottrarsi a una dinamica di potere e di morte e come essa stessa ne apparisse ormai complice e artefice consapevole. Clara Immerwahr, la moglie di Haber, era anche lei un chimico brillante e disapprovò gli sforzi criminali del marito con cui ebbe degli accesi scontri. Alla fine gli sottrasse la pistola d’ordinanza e con quell’arma si suicidò nel mese di maggio dell’anno 1915. Il marito partì invece subito dopo per il Fronte Orientale per coordinare l’attacco con i gas contro i Russi senza neppure assistere al funerale della moglie. Haber manifestò un comportamento mostruoso e disumano, un modo di fare liberamente praticato molto prima della venuta del Nazionalsocialismo, il che ci fa comprendere quanto i falsi valori di fedeltà alla Patria, al Popolo Tedesco e al Kaiser fossero presenti e come agissero in modo nefasto anche su di una personalità dalla natura geniale come Haber. Per ironia della sorte questo chimico e premio Nobel era ebreo e si trattò di un fatto che non giovò alla sua carriera militare che si fermò al grado di capitano. Fritz Haber morirà in esilio nel 1934 a Basilea a causa delle iniziali persecuzioni antiebraiche dei nazisti che lo costrinsero a trovare rifugio in Svizzera 1. Una personalità del regime nazista implicata inizialmente nell’organizzazione dell’eutanasia per i nati malformati e i disabili era il generale delle SS Philip Bouhler (1899-1945), un uomo dotato di una personalità complessa e legato a una sicura adesione all’ideologia di Hitler. Bouhler proveniva da una famiglia di militari bavaresi e aveva fatto in tempo ad arruolarsi e combattere nella Grande Guerra guadagnandosi una decorazione e riportando una ferita che lo aveva reso claudicante. Aveva studiato filosofia e nutriva qualche ambizione letteraria, tanto che una sua biografia di Napoleone riscosse un certo successo. Grazie all’intelligenza e all’iscrizione precoce al Partito Nazionalsocialista prima e alle SS poi, ricopriva l’incarico importante e delicato di capo della Segreteria privata del Führer. Quest’organismo era stato creato per liberare Hitler dalle incombenze di un rapporto diretto con la popolazione tedesca che inviava continue lettere e suppliche al dittatore 4,5.
Il generale e i suoi numerosi collaboratori si occupavano di fare da intermediari tra l’autorità suprema e le più disparate istanze che venivano avanzate dalla gente e che provenivano da ogni angolo della Germania. Quando nell’autunno del 1939 Bouhler e Brandt ricevettero l’ordine di Hitler di intervenire per fornire una morte compassionevole ad alcuni malati incurabili, si resero conto del fatto di come esistessero due diversi piani per attuare quell’intervento. Il primo era il versante strettamente medico, della cui supervisione e organizzazione generale venne incaricato Brandt. L’altro dato di cui tenere conto era il momento organizzativo e di selezione primaria degli individui da sopprimere o comunque da sottoporre a una valutazione dei medici. Bouhler, assorbito dalla burocrazia e impegnato da molteplici problemi, incaricò dell’organizzazione legale e pratica del segretissimo piano di eutanasia un proprio diretto sottoposto, il colonnello delle SS Viktor Brack (1904-1948). Questi era un autentico criminale e allo stesso tempo anche un uomo di fiducia di Heinrich Himmler (1900-1945), il Reichsführer e capo supremo delle SS e della polizia tedesca di cui Brack era stato l’autista. Brack era figlio di un medico e aveva compiuto in parte degli studi di economia, ma oltre a questo era dotato di un sottile talento criminale che dissimulava sotto un aspetto anonimo e apparentemente banale. Il colonnello agì senza ordini scritti mettendo a punto una macchina di sterminio efficiente. Creò una rete di Ospedali o meglio di Centri di eliminazione mascherati da case di cura in cui i pazienti affetti da handicap fisico o psichico venivano soppressi utilizzando iniezioni di diverse sostanze. Venivano adoperate alte dosi di morfina e di barbiturici, oppure si utilizzava il monossido di carbonio, un gas venefico che si sprigiona durante i processi di combustione. Per questo fine vennero approntati all’inizio dell’attività criminale dei falsi autobus su cui venivano fatti accomodare i predestinati all’eliminazione. Durante un tragitto dal tempo accuratamente calcolato questi mezzi di trasporto avvelenavano i passeggeri con le emissioni dei loro tubi di scappamento deviate nell’abitacolo. I viaggi di trasferimento con questi mezzi di trasporto erano pertanto dei veri e propri percorsi verso l’Aldilà, in quanto i passeggeri morivano durante il viaggio del torpedone in cui erano stati rinchiusi e avvelenati dal CO, il Monossido di Carbonio. Questo gas ha un’altissima affinità biochimica con la molecola dell’Emoglobina, in cui prende il posto dell’Ossigeno. Blocca in questo modo la respirazione cellulare prima e in seguito quella dell’intero organismo, ponendo fine alla vita dopo un breve stato soporoso in cui l’individuo cade senza avere possibilità di fuga. In seguito e per migliorare l’efficienza del processo, troppo lento per quei criminali, vennero approntate le prime rudimentali camere a gas, ambienti costruiti in aree apposite dei finti nosocomi che comprendevano anche dei forni crematori per eliminare ogni traccia dei delitti. I cadaveri venivano cremati nel Centro di cura dove era avvenuta la loro soppressione e i familiari ricevevano dei falsi certificati medici di morte in cui li si informava del decesso del loro congiunto verificatosi per cause naturali, per lo più una falsa polmonite. Il medico Karl Brandt e il suo collega Leonardo Conti ebbero da Himmler l’incarico di scegliere quale mezzo di uccisione fosse il più efficace e optarono per concedere una certa libertà di utilizzo dei metodi mortali, fermo restando che la selezione dei candidati alla morte e l’impiego dei farmaci per ucciderli fosse unicamente compito del medico. I dispensatori di morte erano tutti medici aderenti alle SS, sanitari di provata fiducia e appositamente formati, che dovevano essere consapevoli di stare compiendo un’operazione di igiene pubblica, una forma di pulizia sociale di tipo sanitario che avrebbe tolto di mezzo migliaia di bocche da sfamare a favore di un paese impegnato in un’economia di guerra. Una nazione, la Germania, che non poteva permettersi “di sprecare risorse” per mantenere in vita delle esistenze considerate inutili per lo Stato 4,5. In gran segreto e senza dare alcuna ufficialità alla cosa vennero uccisi con questo sistema migliaia di bambini e di adulti. Un eccidio che riguardò un numero incerto e sempre sottostimato di individui, mentre la reale entità della strage resterà sconosciuta. Il processo di selezione degli sfortunati e della loro eliminazione andò avanti fino all’agosto del 1941 e cessò solo per le proteste di alcuni vescovi della Chiesa Cattolica e dei pastori di quella Protestante, oltre che per l’ostilità della popolazione civile che aveva finito per comprendere quale triste destino di morte attendesse quei poveretti che venivano strappati dalle loro case e dalle famiglie con la promessa di essere sottoposti a delle cure specifiche.
In questa organizzazione delittuosa dei Nazisti il ruolo di Viktor Brack è stato probabilmente sottovalutato, forse per il grado militare non elevato che il criminale ricopriva. Una condizione simile a quello accadrà in seguito con Adolf Eichmann, un colonnello anche lui e responsabile dell’organizzazione logistica dell’Olocausto. Brack dimostrò un autentico talento criminale nell’organizzare gli aspetti pratici di uno sterminio di massa, un’abilità lucidamente sadica che nascondeva disinvoltamente sotto un aspetto di tipo mite. Si svolse in questo modo il Programma T4 di Eutanasia Attiva o più semplicemente Aktion T4 che costituirà la prova generale per il futuro sterminio degli Ebrei nei campi appositamente costruiti nell’Europa Orientale. Attraverso un processo di selezione e di eliminazione di inabili e di malati sarebbe stata effettuata la soppressione criminale di decine di migliaia di esseri umani di nazionalità tedesca. Secondo alcune stime, che non sono tuttavia univoche, si sarebbe trattato dell’uccisione di un numero di persone variabile tra le 75.000 e forse le 150.000, tra cui alcune migliaia di bambini. Nella Germania di quei tempi le idee di praticare una forma di Eugenetica sugli esseri umani non nascevano dal nulla ma affondavano le loro radici in uno sviluppo estremo del così detto Darwinismo sociale, un’ideologia che aveva trovato ampi spazi di crescita in tutto l’Occidente sia nella seconda metà del XIX secolo che nei primi due decenni del XX. Dopo l’uscita nel 1859 del libro l’Origine delle specie, le teorie evolutive di Charles Darwin avevano trovato degli accesi sostenitori e degli estensori convinti della loro validità anche al corpo sociale di un’intera nazione. Di questi sviluppi il povero Darwin era innocente. La sua figura austera e la grande onestà intellettuale e morale non avrebbero mai approvato una pericolosa deriva ideologica relativa alla così detta Evoluzione sociale. Tuttavia all’interno dell’opera di Darwin e del metodo da lui adoperato sono rinvenibili dei passaggi formali e degli accenni che possono avere ispirato la costruzione di azioni criminali di Eugenetica al di fuori di ogni intenzione reale dell’Autore 6,7. Dopo il suo ritorno in Gran Bretagna nel 1836, sbarcato dal brigantino Beagle, la nave con cui aveva compiuto in quasi cinque anni il giro del Mondo, Darwin si stabilì a Londra e cominciò a lavorare sui reperti raccolti durante il viaggio. Mise per iscritto le sue nuove idee sulle variazioni delle specie viventi che aveva intuito, anche se in un modo non ancora sistematico, durante il lungo peregrinare del brigantino e le accese discussioni con il comandante della nave, il capitano Robert FitzRoy. Darwin si recava per questo lavoro all’Athenaeum Club quasi ogni giorno. L’Athenaeum era un club per gentlemen situato ancora oggi nel quartiere di Pall Mall. Un club di grandi tradizioni, visto che nella sua storia ha annoverato dei soci del calibro di Charles Dickens e di Winston Churchill 6,7. Darwin ne utilizzò a fondo la grande biblioteca, con letture instancabili che spaziavano su degli argomenti molto diversificati. Si prefisse un intenso programma di consultazione e di studio che affrontò con impegno. Lesse, uno dopo l’altro, David Hume, Adam Smith e John Locke, oltre le opere dello storico Edward Gibbon e del romanziere Sir Walter Scott. Nel frattempo, sebbene impegnato a leggere testi teorici e filosofici in ogni campo, si mise alla ricerca quasi ossessiva di persone che potessero, indipendentemente dalla propria condizione sociale e culturale, fornirgli delle informazioni pratiche sulla storia naturale ed esperienze che egli avrebbe meticolosamente registrato. Senza emarginare i suoi conoscenti meno istruiti e con grande umiltà, Darwin interpellò Mark, il cocchiere di suo padre, chiedendogli la sua opinione sui cani e sugli incroci delle loro razze e William Fox, un suo cugino, ponendogli diverse interrogazioni sugli animali da cortile. Questo modo di procedere, di tipo pragmatico e teorico insieme, divenne uno degli aspetti caratteristici del suo modo di operare. Ecco come Darwin stesso lo descrisse:
Il Saggio sul principio della popolazione di Thomas Robert Malthus (1766-1834), pubblicato nel 1798, influenzò non poco le vedute di Darwin sulla selezione naturale. Gli suggerì i meccanismi attraverso cui questa avrebbe potuto agire, come il principio di sopravvivenza e la conseguente selezione delle specie. Le teorie di Malthus, che era un pastore anglicano e un appassionato di matematica, a rileggerle ora dopo circa due secoli dalla loro divulgazione, continuano a rivestire una modalità caratterizzata da una certa ferocia. Come cittadini di un moderno stato sociale che si sforza di assicurare un’assistenza sanitaria ampia a tutta la popolazione e che, almeno a parole, cerca di fornire ai meno abbienti un aiuto per non vivere nell’indigenza, facciamo fatica a comprendere la logica spietata con cui Malthus condannava i deboli a essere e rimanere tali perché le risorse naturali a disposizione non erano a suo avviso sufficienti per tutti. Malthus identificava l’origine della miseria nella crescita eccessiva del numero dei componenti di una popolazione, crescita che avveniva in modalità più veloce di quanto fosse possibile accrescere i mezzi di sussistenza. Secondo i suoi ragionamenti, gli esseri umani si riproducevano seguendo una proporzione di tipo geometrico (1-2-4-8, ecc.) e quindi ogni aumento era alla base della moltiplicazione del numero dei soggetti viventi. Le risorse materiali, da destinare al sostentamento si accrescevano invece seguendo una proporzione aritmetica (1-2-3-4, ecc.). Questo incremento delle risorse non sarebbe mai riuscito a tenere il passo con la crescita della popolazione. L’esito finale di tutto ciò sarebbe consistito nel fatto di trovarsi di fronte a un numero crescente di esseri umani e in proporzione a risorse sempre meno idonee a sfamarli 8,9. L’incremento demografico avrebbe potuto essere ritardato da quelli che Malthus definì come i freni repressivi. Questi erano le guerre, le epidemie e le carestie. Oppure avrebbero agito in senso moderatore i freni preventivi, come le restrizioni morali che consentivano il controllo del numero dei nuovi nati attraverso una riduzione dei rapporti sessuali. Un po’ ipocritamente Malthus esortava gli uomini a praticare questa regola e soprattutto ad attenervisi dovevano essere le persone più povere, cui prospettava una limitazione volontaria delle nascite attraverso l’astensione dal matrimonio oppure la sua proibizione prima di una certa età. In campo economico Malthus ipotizzò un liberalismo radicale, secondo le cui regole, o meglio attraverso la totale mancanza di queste, ogni individuo avrebbe dovuto essere lasciato libero di competere con altri membri della stessa specie. Sarebbe stato inoltre privato, utilizzando una regola che lo rendesse più aggressivo, di ogni forma di assistenza sociale e di solidarietà. In questo modo, in un tessuto sociale crudele e rarefatto, sarebbero prevalsi per selezione competitiva i più forti e astuti sui più deboli ed i meno combattivi. Le teorie di Malthus furono sottoposte a una critica accesa da parte degli studiosi di formazione marxista. Lo stesso Karl Marx definì il pastore Malthus come un autore inaffidabile e sostenuto da un plagio continuo. Anche se parzialmente contraddette dagli sviluppi demografici ed economici del XIX e XX secolo, queste idee devono essere tenute in considerazione perché permettono di comprendere come il pensiero di Darwin ne sia stato influenzato. In Thomas Malthus ricompare il tentativo, mai abbandonato, di spiegare il mondo della natura secondo delle regole umane, il voler costringere l’enorme complessità della variabilità biologica entro degli argini sicuri legati a un finalismo scientifico e ad una visione pragmatica in cui ogni avvenimento fisico potesse essere previsto e adoperato a vantaggio dell’uomo 8,9. Questa possibilità d’interferire e dirigere una comunità umana agendo sul suo sviluppo demografico e biologico, operando magari in senso evoluzionistico per migliorarla, ci porta all’utilizzo “a fin di bene” delle manipolazioni genetiche, iniziando da alcuni settori di apparente e minore richiamo conoscitivo, come l’agricoltura e gli allevamenti. Ci troviamo di fronte a due visioni di tipo integralista della Scienza. Una prima che pensa alla Natura come una madre benevola e dispensatrice di processi finalizzati e per questo buoni e una seconda, che ritiene ogni mezzo sia lecito per abbattere le barriere biologiche costrittive in cui si svolge la vicenda della comunità umana. Se queste barriere sono di ostacolo, l’uomo ha sempre e comunque il diritto di mutarle, perché il fine, in un certo senso, giustifica i mezzi, in politica come in biologia. Naturalmente il pensiero di Darwin non prevedeva questi sviluppi e le Leggi della trasmissione genetica dei caratteri ereditari elaborate da Gregor Johann Mendel (1822-1884) poco tempo dopo l’esposizione della Teoria sull’Evoluzione delle Specie in un lontano monastero di Brno, nell’odierna Repubblica Ceca, tesi poi dimenticate per decenni, avrebbero spiegato molte delle cose che Darwin non era in grado di comprendere quando rese pubbliche le sue idee 10. Secondo alcuni filosofi della seconda metà del XIX secolo e dei primi decenni del XX, come la natura si era preoccupata nei millenni di selezionare gli individui più adatti ad affrontare l’ambiente, così la società doveva e poteva farsi carico di migliorare la propria composizione favorendo la vita e la riproduzione degli individui dotati di caratteristiche fisiche e morali di eccellenza. Studiosi dalla personalità autorevole e complessa, come il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903) e il sociologo francese David Émile Durkheim (1858-1917), avevano applicato i principi contenuti nel Positivismo del visionario Auguste Comte alla ricerca in campo sociale. Avevano ipotizzato la formazione di diversi ruoli ricoperti dai protagonisti di questo processo secondo dei meccanismi di selezione e di scelta dei soggetti più idonei. Durkheim interpretò lo studio della sociologia come un vero e proprio strumento di “conoscenza medica” delle caratteristiche di una comunità umana da cui si sarebbero potute apprendere la natura delle eventuali “malattie sociali”. Conosciute le modalità di sviluppo di queste patologie se ne sarebbero individuate le cure. Il modello costituito dalla sequenza malattia sociale/infezione del popolo/estirpazione del male sarà infatti uno dei più frequentemente utilizzati dalla propaganda nazista. La medicina a cavallo tra il XIX e il XX secolo si poneva come un esempio di scienza inarrestabile il cui modello teorico e pratico veniva a sovvertire ogni gerarchia dei saperi precedenti, assicurando alle persone un progressivo miglioramento delle condizioni di vita e la liberazione da malattie secolari. Aveva scritto in proposito Durkheim:
La differenza più importante tra Spencer e Durkheim era legata al fatto che il secondo vedeva l’educazione e il condizionamento forniti dalla società come l’elemento fondante della personalità dell’individuo, mentre Spencer trovava centrali le scelte del singolo essere umano che doveva essere messo in condizione di vivere in una società retta dal libero mercato e da una competizione accesa ma leale, oltre che regolata dall’onestà dei comportamenti individuali. Il dibattito sulla conseguenza delle Teorie evoluzionistiche e i loro effetti sulla vita umana fu ritenuto importante in Gran Bretagna e negli Stati Uniti negli stessi anni e suscitò interminabili e accese discussioni. In Germania questa visione culturale darwiniana, che avrebbe portato a conclusioni di tipo eugenetico, ebbe il sostegno di due personalità di prestigio del mondo accademico e culturale, lo psichiatra Alfred Hoche (1865-1943) e il giurista Karl Binding (1841-1920). I due studiosi pubblicarono insieme nel 1920 un libro che ebbe un certo successo editoriale e che recava il titolo di: Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita). In questo volume si faceva ricorso ad affermazioni inquietanti e che sarebbero state gravide di conseguenze 12.
Il saggio dei due studiosi tedeschi costituiva un punto di arrivo articolato e in apparenza razionale di un discorso ideologico i cui presupposti erano legati ad alcune affermazioni discutibili. Secondo i due autori del libro era lecito praticare l’eutanasia sugli individui mentalmente handicappati in quanto costoro non avrebbero potuto formarsi una visione razionale del mondo in cui vivevano, un contesto in cui erano stati gettati in modo non richiesto a vivere, per usare dei termini cari alla filosofia di Martin Heidegger e che saranno coniati appena qualche anno dopo. Questi malati gravi, che costituivano un peso economico e sociale per la comunità, che avessero deciso di non vivere ulteriormente la loro condizione di sofferenza, «dovevano essere aiutati a morire» in quanto la loro morte non poteva essere interpretata come un vero e proprio assassinio ma l’aver evitato ad alcuni soggetti più svantaggiati una fine penosa. Ultimo e ancora più controverso punto, lo Stato aveva il diritto di disfarsi di alcuni esseri umani incapaci di comprendere i termini della propria esistenza e di mostrare attraverso questo comportamento la gratitudine nei confronti di chi li aveva in cura. Secondo il medico Alfred Hoche questi poveretti costituivano una zavorra per la nazione germanica e un peso economico ingiustificato e inutile. Qualche avvisaglia di questa visione utilitaristica si era già avuta durante la Prima Guerra Mondiale, con l’astensione terapeutica nei confronti degli incurabili per lasciare il posto negli ospedali agli innumerevoli feriti in combattimento che provenivano dalle trincee. La Germania in cui era possibile leggere e diffondere simili idee era diventato un paese sconfitto e umiliato dalle durissime condizioni di pace imposte dal Trattato di Versailles del 1919 che rivestiva dei caratteri di tipo vendicativo 13. Le teorie di Hoche e Binding non erano nate in Germania unicamente dopo la frustrazione legata alla sconfitta subita nella Grande Guerra. Avevano trovato un sostegno e un’anticipazione a partire da idee simili che circolavano nel mondo anglosassone in quegli anni e da un tempo più remoto. Si trattava di un riflesso di un’antica scuola filosofica inglese, quella dell’Utilitarismo, comparsa tra il XVIII e l’inizio del XIX secolo, che aveva visto tra i maggiori esponenti il filosofo Jeremy Bentham. Secondo questa corrente filosofica l’interesse particolare dell’individuo non poteva accordarsi sempre con l’utilità generale della nazione. La traduzione pratica di questa ideologia poteva essere declinabile in questo modo: se salvare il maggior numero di persone possibili avesse rivestito un impegno economico tale da destabilizzare la nazione per il costo elevato in termini umani ed economici da sostenere, si sarebbe dovuto ritenere necessario accettare un numero ragionevole di perdite costituite da persone non strettamente indispensabili, vale a dire dei soggetti affetti da malattie invalidanti e incurabili 14,15. Nonostante queste affermazioni possano risultare inaccettabili, occorre segnalare come abbiano lasciato tracce profonde nel sentire delle grandi Democrazie dell’Occidente. Si trattava di situazioni di relativa astensione dalle cure in pazienti inguaribili, oppure di comportamenti obbligati dei sanitari in momenti di stress per i Sistemi Sanitari europei causati da possibili epidemie incontrollabili che avessero generato un numero di pazienti superiori a quelli sostenibili dalle strutture ospedaliere. Un precursore di questo dibattito era stato uno studioso inglese vissuto prima della guerra del 1914-18. Il suo nome era Francis Galton (1822-1911), un uomo geniale e per certi versi autodidatta. Era un cugino di Charles Darwin e aveva pubblicato nel 1869, dieci anni dopo l’uscita dell’Origine delle Specie, uno dei suoi molteplici studi dal titolo di Hereditary Genius. In questo e in altri scritti Galton si presentò come l’inventore e poi un sostenitore autorevole del termine di Eugenetica, cioè di una nuova disciplina che avrebbe dovuto interessarsi alle possibilità di un miglioramento della specie umana attraverso l’utilizzo di fattori esterni all’evoluzione naturale e introdotti dall’uomo 16,17. Si trattava dello sviluppo in chiave evoluzionistica di alcuni concetti espressi nell’opera di Adolphe-Jacques Quételet (1796-1874), un matematico e astronomo belga che aveva scritto qualche decennio prima dei lavori sulla conoscenza statistica dei fenomeni naturali e si era proposto di riuscire a definire lo sviluppo del comportamento umano utilizzando le leggi della matematica. Quételet si era servito di una modalità statistica nota come Analisi multivariata che a suo parere si sarebbe potuta adattare allo studio di fenomeni complessi come il comportamento umano. Il matematico utilizzò alcune variabili statistiche per comprendere gli accidenti naturali, introducendo una particolare attenzione alla valutazione della loro complessità. Si trattava di una visione innovativa che influenzò la modalità di approccio alla Sociologia di Émile Durkheim. Per comprendere la modalità di svolgimento di alcuni fenomeni naturali non bisognava relazionarsi ai comportamenti delle singole persone oppure agli effetti da questi generati, ma occorreva prendere in esame il modo di agire di un ipotetico uomo medio statistico cui fare riferimento in ogni calcolo 18,19. Secondo le idee di Galton la natura da sola non avrebbe avuto degli intenti evolutivi di tipo positivo e sarebbe stato compito dell’uomo intervenire, attraverso l’intelligenza e la ragione, per modificare il corso naturale degli eventi e perfezionare le caratteristiche della specie. Un perfezionamento interpretato come la licenza data all’uomo di interferire attivamente sulla nascita e sulla morte, selezionando e scegliendo i più adatti e scartando gli inetti all’esistenza nel consesso umano. Le tesi di Galton, improntate a una forma di darwinismo sociale, furono riprese e condotte verso degli sviluppi pericolosi che furono espressi nel 1895 dallo scrittore tedesco Adolf Jost nel suo libro Das Recth auf den eigenen Tod (Il diritto alla propria morte). Si trattò di un testo che fece scuola all’interno delle prospettive eugenetiche del Nazismo. In questo libro Jost sosteneva la tesi che allo Stato spettasse l’ultima parola su come organizzare la nascita e soprattutto la morte degli individui al fine di preservare il benessere e permettere il progresso dell’intera nazione 13,20.
Figure e tabelle
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