Medical Humanities e Pneumologia
Pubblicato: 2019-04-15

Le idee di salute e di malattia - Prima parte

Medico Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio Specialista in Chemioterapia Storico e Filosofo della Medicina

Abstract

Le idee di salute e di malattia appaiono immediate e semplici e non viene di solito condotta una riflessione
sulla loro formazione. Si tratta invece di due condizioni della vita che non sono rigidamente separate. Non è
possibile dividere in modo sicuro uno stato di salute da uno di malattia, in quanto questi momenti non possiedono una semplice caratteristica biologica, ma sono anche il frutto di valutazioni di tipo culturale, piuttosto che medico. Accettare la complessità che precede e sostiene lo stato di malattia, oppure quello di salute, significa anche accettare la propria condizione umana e la propria fragilità, smettendo di inseguire a tutti i costi stereotipi di apparenza e di benessere che possono generare un sentimento di inadeguatezza legato a logiche di consumo e non di cura.

 

“… Il corpo è il nostro mezzo generale di avere un mondo; talvolta esso si limita al gesti necessari alla conservazione della vita e correlativamente pone intorno a noi un mondo biologico; talvolta, utilizzando quei primi gesti e passando dal loro senso proprio a un senso figurato, manifesta attraverso di essi un nucleo di significato nuovo: è il caso delle abitudini motrici, come la danza. Talvolta, infine, il significato prospettato non può essere raggiunto con i mezzi naturali del corpo, e bisogna allora che esso si costruisca uno strumento e proietti intorno a sé un mondo culturale …”.

da Maurice Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione 1

.

Articolo

Possiamo iniziare questo discorso con la più classica delle definizioni. Spesso le definizioni costituiscono un sentiero sicuro attraverso cui inoltrarsi in territori poco conosciuti. Vivono e si alimentano della esperienza degli altri, di chi è tornato da certi luoghi e ne ha potuto raccontare e per farlo ha dovuto descrivere qualcosa che ha visto attraverso le parole. In seguito, come avviene quando si cerca di valutare con precisione un argomento si finisce per accorgersi di come le parole possano essere inadeguate. Delimitare un argomento di conoscenza risulta infatti più difficile del mettere dei punti di segnalazione lungo un qualsiasi confine geografico o dell’indicare un percorso da seguire.

Con il termine Antropologia, che deriva dal greco άνθρωπος (ànthropos = uomo) più il suffisso –logia e dal greco λόγος, (lògos = parola, discorso) si circoscrive una scienza che studia l’uomo da un punto di vista sociale, culturale, fisico e nei comportamenti manifestati nelle comunità umane di cui egli fa parte. Una parte dell’antropologia che vive una sua vita autonoma è quella costituita dall’Antropologia culturale. Questa si riferisce a un approccio di tipo trasversale e olistico. Effettua uno studio complesso della natura dell’uomo, che diventa l’oggetto omnicomprensivo di queste speculazioni 2.

L’Antropologia medica invece si occupa delle interazioni che avvengono tra le diverse componenti della medicina, il corpo e la psiche dell’individuo. Studia come differenti culture abbiano elaborato diverse tipologie di pratiche, credenze e conoscenze intorno ai problemi collegati alle problematiche della salute, della malattia e della cura. Cerca di comprendere le tematiche relazionali e sociali presenti nei momenti più importanti della vita umana, come il passaggio tra la salute e la malattia e il porsi dell’individuo davanti al dolore e alla morte 3.

L’antropologia medica è un sapere di tipo interdisciplinare che può utilizzare diversi strumenti culturali adoperandoli come differenti categorie interpretative. Cerca di salvaguardare la complessità delle esperienze esistenziali degli individui e le interazioni delle persone con le dinamiche politiche ed economiche. Si tratta pertanto di una disciplina di tipo eclettico, che tende a rifiutare un modo di procedere assiomatico, basato su delle affermazioni di principio scarsamente criticabili ripensando ad alcuni grandi argomenti della medicina in modo alternativo alle consuetudini e ai luoghi comuni.

L’analisi della produzione artistica condotta lungo i secoli può fornire dei parametri per meglio comprendere l’evoluzione delle idee di salute e di malattia. Pensiamo alla celebre scultura del Galata morente, un capolavoro di epoca ellenistica del III secolo a. C., di cui nel mondo romano successivo sono state fatte innumerevoli copie per abbellire le ville e le dimore di personaggi facoltosi. Un personaggio, quello del Galata, che divenne una specie di multiplo artistico dell’antichità, un po’ come oggi si fa con i Girasoli di Van Gogh o lo Stagno delle Ninfee di Monet.

I Galati erano una popolazione di etnia celtica, simile ai Galli, che tra il IV e il II secolo a.C. invasero la Grecia e si spinsero fino agli altopiani dell’Anatolia centrale dove oggi sorge la capitale turca di Ankara. Guerrieri coraggiosi e indomabili, furono apprezzati dallo stesso Alessandro Magno, che conobbe le loro imprese e li trattò sempre con rispetto. Lentamente e dopo innumerevoli battaglie furono infine assimilati dalle popolazioni di lingua greca dell’Asia Minore, mentre il loro ricordo sopravvisse al trascorrere dei secoli. Torniamo alla scultura che abbiamo prima citato. Disteso su di un fianco e ferito a morte, dopo essersi trafitto con la sua stessa spada per non essere preso prigioniero, il principe galata appare completamente nudo ad eccezione di una torque, un collare metallico aperto davanti sul petto, il quale costituiva un ornamento rituale di carattere magico e religioso con funzioni di protezione per chi l’indossava. Si trattava di un simbolo magico che proveniva dalle umide e fredde regioni del Nord Europa di cui i Galati erano originari. Ne sono stati rinvenuti innumerevoli esempi e raffigurazioni in altre opere d’arte di origine barbarica, come il Calderone di Gundestrup, cesellato nella Danimarca del I secolo a.C., in cui ritroviamo illustrate divinità sanguinarie e guerrieri pronti al sacrificio e alla lotta. Spesso questi reperti provengono dalle fosse di torba in cui venivano gettate le vittime sacrificali agli dei crudeli del Nord, contenitori liquidi e insondabili nel loro colore scuro che grazie alle proprietà chimiche e fisiche della torba in cui rimasero immersi per secoli ci hanno restituito alcuni corpi ancora riconoscibili nelle loro forme insieme a ricchi corredi sacrificali. L’analisi di un’opera d’arte rappresentativa di una cultura e di un’epoca attesta come il sapere antropologico scaturisca dall’incontro tra ciò che è altro con chi lo esamina. Un osservatore che deve utilizzare strumenti culturali molteplici provenienti da vari campi disciplinari insieme alla loro contaminazione consapevole con altre culture e saperi.

Il libro Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (1937) di Edwan Evan Evans-Pritchar (1902-1973), un nome che sembra quasi uno scioglilingua, è considerato il primo testo compiuto di antropologia medica dal momento che l’autore vi analizzò i concetti di magia e di stregoneria, i rituali terapeutici e quelli riparatori, le dinamiche tra i guaritori e i loro pazienti, mettendoli in relazione con la cultura e la società degli Azande. Questo era un gruppo etnico africano che viveva tra la parte meridionale del Sudan e il Centro Africa nella prima metà del XX Secolo. Scrisse in proposito Evans-Pritchar:

“…il pensiero degli Azande è talmente diverso dal nostro da permetterci solamente di descrivere le loro parole e azioni, senza comprenderle, oppure è essenzialmente analogo, benché espresso in un idioma al quale non siamo abituati? Quali sono le motivazioni del loro comportamento? Quali concetti essi si formano della realtà? Come questi concetti e motivazioni si esprimono nel costume? Ho sempre cercato di tenere presenti questi grandi problemi sociologici, affinché il mio resoconto fosse una descrizione rispondente a un fine, piuttosto che una mera registrazione di fatti…” […].

“…Gli Azande credono che taluni individui siano stregoni e possano arrecare loro del male in forza di una qualità intrinseca. Uno stregone non compie alcun rito, non pronuncia formule magiche, non possiede medicine. Un atto di stregoneria è un atto psichico. Essi credono anche che i fattucchieri possano loro nuocere compiendo riti magici per mezzo di medicine malefiche. Gli Azande distinguono nettamente tra stregoni e fattucchieri. Contro gli uni e gli altri ricorrono a divinatori, oracoli e medicine. Le relazioni che intercorrono tra queste credenze e questi riti costituiscono l’oggetto del nostro libro…” .

da Edward E. Evans-Pritchard,

Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande 4

In queste società non contaminate dal mondo moderno all’origine del rapporto tra il terapeuta, il paziente e la loro interazione con la malattia era presente il Paradigma terapeutico dello Stregone. Con questa formula si può intendere il riconoscimento della presenza nel rapporto di cura di una serie di fattori irrazionali. Questi erano basati sul riconoscimento tra il curante e il malato di alcune influenze soprannaturali. Si trattava di un vero e proprio paradigma, quello dello stregone, che attestava l’importanza di variabili legate a una visione magica dell’esistenza le quali potevano arrecare un effetto benefico oppure negativo all’evoluzione della malattia. Gli esordi della medicina furono segnati da una riflessione sulla natura e sui processi biologici e culturali che portavano a confrontarsi con una realtà dolorosa costituita dalla malattia e dal fatto che questa potesse causare invalidità e morte. La Filosofia naturale dell’Antica Grecia nacque nel VI secolo a.C. dall’osservazione dei fenomeni metereologici e della forza degli elementi che li provocavano. Era stata animata dal dibattito generato dai Filosofi presocratici, definiti come gli studiosi dell’arché, indagatori quindi delle cause. Pensatori che osservavano il mondo e ricercavano un principio unificante tra le forze della natura.

In questo panorama biologico ed esistenziale la malattia e la morte segnavano l’irruzione della casualità come un dato incontrollabile nell’esistenza dell’individuo. Il Caso o Kaos, per gli Antichi Greci, costituiva un fattore di massimo potere sulla realtà. Un elemento di angoscia e di terrore profondi come lo è ancora per l’uomo contemporaneo che ha imparato ad esorcizzarlo ignorandolo. Se pensiamo alle innovazioni legate al welfare della nostra civiltà di cui siamo tanto orgogliosi, non possiamo fare a meno di riflettere come le istituzioni previdenziali e gli ospedali moderni rechino in sé questo desiderio di delimitare e di circoscrivere il più possibile l’azione del Caso nella vita umana. La ricerca dell’uomo intorno al miglioramento delle proprie condizioni di vita risulta da sempre tesa a sterilizzare gli effetti della casualità, rendendoli il più possibile ininfluenti.

Le morti accidentali vengono infatti definite dagli organi di informazione come morti assurde, perché non sono interpretabili attraverso una sequenza razionale di eventi. Si cerca sempre di rintracciare qualche comportamento doloso, oppure di semplice e colpevole incuria, che giustifichi il perché la disgrazia abbia avuto luogo. Un’indagine che serve a delimitare e controllare l’angoscia, a far sì che si possa continuare l’esistenza convinti che le deroghe a una saggia e rassicurante prevedibilità dei comportamenti umani e di quelli delle forze naturali siano un evento raro e fortuito, un rischio che si possa correre senza eccessivi timori di essere sorpresi da un destino avverso. Questa delimitazione razionale di un evento negativo riveste una funzione liberatoria, perché sposta l’attenzione delle persone dal pozzo oscuro del terrore in cui potrebbero precipitare se accettassero senza riserve una spiegazione non completamente ragionevole del verificarsi delle disgrazie.

Gli antichi Greci crearono a tal fine una divinità che facesse da contraltare al Caso e servisse ad esorcizzarlo e a controllare parzialmente i suoi effetti destabilizzanti. Si trattava della Necessità o Anánche. Una dea poco conosciuta, cui di rado venivano innalzati templi. Anánche era la madre di Adrastea, la Nemesi, la divinità del Destino e delle tre Moire o Parche, figure femminili indifferenti alla sorte degli uomini e dispensatrici del destino dei viventi. Le Moire sovrintendevano al filo della vita umana con un compito ben differenziato tra di loro. Cloto filava, Lachesi lo avvolgeva intorno al fuso e ne determinava la lunghezza, differente per ogni esistenza. Atropo infine lo tagliava al momento della morte. La Necessità aveva un potere superiore a quello degli stessi Dei, serviva a contrastare il Caso, a delimitare il suo effetto di disordine, incertezza, ansia e insicurezza sulla vita degli uomini. Personificava un fattore di controllo dell’angoscia esistenziale che consentiva di sopportare il verificarsi della malattia e della morte o almeno di farsene una ragione. Un tipo di giustificazione dell’esistere irrazionale, dal momento che non era possibile elaborare alcuna previsione attendibile sulla durata della vita di ognuno. Da una parte quindi vigeva il più assoluto fatalismo e dall’altra, proprio su questa ignoranza del tempo della propria fine le persone costruivano e costruiscono un percorso esistenziale, cercando di fissarsi delle mete temporanee da raggiungere. Agivano e si comportavano in una logica di possesso di beni materiali o di potere sugli altri esseri umani che serviva a circoscrivere e ad allontanare la paura disperante della fine. Tutti questi fattori di assurdità, come li avrebbe chiamati un filosofo esistenzialista del XX Secolo, rimanevano sullo sfondo e concorrevano alla costruzione e alla percezione dell’entità che chiamiamo malattia come un fatto biologico calato nella cultura del tempo. Un’esperienza completa per il soggetto che avrebbe dovuto subirla, collocata con nettezza di sensazioni e di ricordi nel decorso della propria vita 5.

Riferimenti bibliografici

  1. Merleau-Ponty M.. La fenomenologia della percezione. Bompiani: Milano; 2003.
  2. Fabietti U.. Storia dell’Antropologia. Zanichelli: Bologna; 2001.
  3. Quaranta I.. Antropologia Medica. I testi fondamentali. Raffaello Cortina Editore: Milano; 2006.
  4. Evans-Pritchard Edward E.. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande. Raffaello Cortina Editore: Milano; 2002.
  5. Perozziello FE.. Sulla condizione umana, riflessioni mediche e antropologiche. Mattioli 1885: Fidenza; 2013.

Affiliazioni

Federico E. Perozziello

Medico Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio Specialista in Chemioterapia Storico e Filosofo della Medicina

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2019

Come citare

Perozziello, F. E. (2019). Le idee di salute e di malattia - Prima parte. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 34(1-2), 52-54. https://doi.org/10.36166/2531-4920-2019-34-18
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