Medical Humanities e Pneumologia
Pubblicato: 2021-05-31

Evidenza e compassione - Terza parte

Medico Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio, Specialista in Chemioterapia, Storico e Filosofo della Medicina

Abstract

La nozione di Evidenza è una delle più ambigue che la filosofia e il pensiero umano abbiano mai potuto contemplare. Definire l’evidenza vuol dire per prima cosa essere sicuri che questa idea contenga un significato affidabile. Tutto il mondo della natura segue invece leggi probabilistiche, legate alla presenza della Seconda Legge della Termodinamica. L’ideologia della fine del XIX secolo contemplava una costruzione del percorso di conoscenza e di progresso di tipo lineare, legato a mete certe da raggiungere, un progettare e un fare dello scienziato che consisteva nel frammentare ogni problema in tanti quesiti più semplici i quali fossero a loro volta risolvibili. L’accrescere la conoscenza su di un determinato fenomeno avrebbe portato inevitabilmente alla comprensione dello stesso. Era come se lo studioso della natura si fosse trovato di fronte a un libro fatto da pagine che recavano un unico quesito cui rispondere, ottenere la risposta a una di quelle pagine avrebbe consegnato il lasciapassare per poter leggere la successiva. Il versante opposto del termine di Evidenza finì con l’essere rappresentato, nelle attività scientifiche, dal sentimento della Compassione. Tuttavia anche questa disposizione dell’animo umano rivelò delle ambiguità di significato e di obiettivi dipendenti da chi aveva formulato e praticato la Compassione stessa.

Articolo

Utilizzare le macchine in campo medico rendeva il rapporto con la diagnostica diverso e più mediato. Il medico diventava il soggetto interpretante di un qualcosa che non veniva osservato dai sensi ma da uno strumento. I valori che questo apparecchio forniva attraverso una radiografia, un elettrocardiogramma, un semplice striscio di sangue sul vetrino di un microscopio dovevano essere interpretati e compresi prima di essere trasmessi al paziente e utilizzati per il suo bene. Si venne a costituire in questo modo un distacco crescente tra la figura del medico e quella dello scienziato e la persona del malato. Il medico poneva dinanzi a sé la barriera di un linguaggio poco decifrabile per i non addetti ai lavori, uno strumento comunicativo indispensabile per trasmettere con affidabilità e precisione le nozioni apprese all’interno della comunità di appartenenza, ma allo stesso tempo uno scudo dietro al quale nascondere la propria impotenza davanti a situazioni non gestibili attraverso la base conoscitiva del tempo. Lentamente il paziente finì per perdere molte delle proprie connotazioni umane per divenire ciò che veniva rappresentato dagli esami e dal laboratorio, divenne un insieme di dati, un collage vivente delle funzioni della macchina uomo su cui il medico interveniva dopo avere riconosciuto il malfunzionamento e le sue cause riportando i parametri alterati alla normalità. Alla base di questa nuova visione scientifica o piuttosto scientista del medico vi erano due convinzioni di fondo. La prima riguardava il concetto di fatto scientifico. Se esaminiamo quest’idea ci renderemo conto di come una cosa sia il fatto scientifico e un’altra la realtà scientifica che esso rappresenta. Per i medici degli inizi del XX secolo che aderivano all’ipotesi meccanicista e razionale nello studio dei fenomeni naturali, l’idea di fatto scientifico come qualcosa di evidente, perché riproducibile e misurabile, non poteva essere messa in discussione. Due illustri ricercatori come Francois Magendie e Claude Bernard avevano sostenuto alcuni decenni prima come i fatti in medicina non dovessero essere interpretati perché si interpretavano da soli 1,2.

La natura era un libro aperto, un libro di tipo fotografico eloquente e manifesto nei propri contenuti, forse simile alle immagini del grande fotografo Gaspard-Félix Nadar (1820-1910), uno dei padri della fotografia come strumento di comunicazione. I suoi ritratti delle personalità della cultura e dell’arte del tempo venivano considerati come una vera e propria consacrazione dell’importanza sociale e della fama della persona ritratta. Amico del grande scrittore di fantascienza e di romanzi avventurosi Jules Verne, Nadar era considerato un autentico maître à penser. Si dilettava lui stesso di scienza e di esperimenti scientifici. Fece costruire un grande aerostato le cui prove in volo furono però disastrose. Si convinse in tal modo che il futuro del volo umano sarebbe stato del “più pesante dell’aria” e donò somme considerevoli per patrocinare diverse ricerche in tal senso. La Parigi del fotografo Nadar era quella gaudente e spensierata in cui veniva costruita la Tour Eiffel, una città che credeva fortemente in un futuro migliore almeno per chi potesse vantare la fortuna di essere un suo cittadino e di non avere preoccupazioni economiche. Nel 1906 il fisico francese Pierre Duhem (1861-1916), in un’epoca contemporanea a queste vicende, aveva formulato l’idea che non esistessero prove sperimentali di una teoria scientifica completamente prive di ambiguità. Secondo Duhem questo impaccio avveniva perché ogni ipotesi scientifica era costruita su di una serie di fenomeni e di teorie tra loro interconnessi, a volte interdipendenti 3.

Le teorie scientifiche davano luogo a strutture complesse di conoscenza della realtà dove ci si poteva trovare di fronte a un edificio speculativo nel suo complesso razionale ma costruito utilizzando i mattoni di numerose teorie accessorie. Non era possibile dimostrare una singola teoria come assoluta senza tenere conto di tutte le altre su cui era stata costruita e che a loro volta la giustificavano e la sostenevano. Le tesi del fisico francese potevano costituire un’intuizione suggestiva anche a riguardo del sapere medico e dello studio della biologia in particolare. Potevano spiegare l’ambiguità dei risultati che gli esperimenti medici generavano dal momento che esisteva pur sempre qualcuno dei malati che non avrebbe risposto alle terapie. Questa ambiguità nelle aspettative di un trattamento, dagli esiti non sempre identici, poteva far comprendere come l’omeostasi di un sistema complesso come quello costituito dal corpo umano fosse in grado di disporsi secondo condizioni dotate di un tasso di tolleranza probabilistica. Nella realtà composita costituita da un organismo vivente i fenomeni avrebbero potuto disporsi secondo la regola della causa/effetto ma il complesso generato dal loro insieme avrebbe costituito un qualcosa di diverso dalla semplice somma algebrica delle singole parti 3,4.

Un’altra convinzione che caratterizzò l’evoluzione metodologica della medicina del primo Novecento fu costituita dall’accettare come indubitabile il fatto che solo le relazioni tra una causa e il suo effetto potessero essere considerate scientifiche. Questo convincimento fu assunto come si trattasse di un dogma, di un’ipotesi di lavoro che non potesse essere messa in discussione, pena il crollo di tutto il castello della medicina sperimentale. Tale asserzione partiva dalla considerazione che lo scorrere del tempo fosse un processo di tipo completamente lineare, uno scorrere dal passato verso il futuro senza alcuna deviazione. Quindi ciò che veniva osservato nel presente non poteva essere altro che la conseguenza di quello che era avvenuto nel passato, in fisica, in chimica, in biologia. Veniva ignorata la lezione epistemologica di David Hume sulla conoscenza della realtà come un processo di aspettativa psicologica del verificarsi dei fenomeni naturali e non suscitò alcun dubbio oppure incertezza nel lavoro dei medici di quello scorcio del XX secolo la Teoria della Relatività che Albert Einstein formulò nel 1905 e la nascita della Fisica Quantistica. Per queste teorie il tempo veniva a perdere un andamento lineare dal passato al futuro, era influenzato dalla posizione nello spazio dell’osservatore come dalla natura delle particelle di energia e della materia che si rifiutavano di obbedire completamente a delle semplici leggi di causa/effetto 5,6.

Non dobbiamo infierire sulla visione trionfalistica dei medici di quel tempo. L’opinione pubblica europea contemporanea si sentiva al centro indiscusso del mondo e le scoperte della medicina di quei decenni avevano ottenuto successi troppo importanti per essere messi in discussione nella loro natura più fine. Lussuosi piroscafi solcavano gli oceani con regolarità, le ferrovie collegavano le nazioni civilizzate, la luce elettrica già illuminava le città dell’Europa e degli Stati Uniti d’America. Le case degli uomini di quel tempo non erano molto differenti, quanto a confort e comodità, dalle abitazioni odierne. Le nazioni europee ostentavano eserciti e flotte onnipresenti in ogni angolo del globo. Grandi navi corazzate attraversavano i mari e potevano imporre la volontà degli Occidentali in ogni parte del pianeta. Erano vascelli armati con cannoni enormi, capaci di sparare a venti o trenta chilometri di distanza proiettili di una potenza distruttiva mai vista. Era un mondo con i continenti divisi tra le diverse colonie delle Potenze Europee, sia per lo sfruttamento delle risorse naturali che seguendo il pretesto ipocrita di portare la civiltà a popolazioni di inferiore condizione 6,7.

L’Europa poteva guardare con orgoglio e un po’ di presunzione al resto del mondo e occorre considerare come la medicina fosse rimasta indietro rispetto alle altre Scienze e soprattutto alla Tecnica. La durata della vita media era di circa cinquant’anni ma si poteva ancora morire per cause che oggi riterremmo banali, come una polmonite oppure un ascesso dentario, perché non esistevano ancora gli antibiotici. Quanto alle malattie cardiovascolari, lo sfigmomanometro era stato inventato nel 1896 dal clinico italiano Scipione Riva Rocci (1863-1937) e sarebbero dovuti trascorrere molti anni per potere disporre di farmaci efficaci per la terapia dell’ipertensione arteriosa, una malattia di cui non si conosceva neppure l’esistenza prima dell’invenzione di quest’apparecchio 7,8.

Molte delle ragioni che abbiamo descritto furono alla base della totale adesione della medicina moderna al metodo sperimentale. Un metodo che era nato per lo studio delle scienze fisiche e che parve l’unica strada da seguire. I medici di quei tempi non erano in grado di potere immaginare uno sviluppo metodologico differente da quello che tante soddisfazioni e risultati concreti stava cominciando ad offrire. Agli inizi del XX secolo il metodo sperimentale sembrava funzionare perfettamente e dava luogo a risultati concreti come un aumento della vita media e un miglioramento delle condizioni generali di esistenza delle popolazioni. Per questo motivo e per quanto riguardava la medicina e le scienze biologiche la resa dei conti con le problematiche epistemologiche aperte fu accantonata. Ci si incamminò fiduciosi lungo una strada che sembrava promettere un lungo percorso di successi, seguendo il credo del Marchese de Laplace che bisognasse solo accrescere il numero di nozioni possedute su di un determinato fenomeno perché questo fosse perfettamente compreso 8,9.

L’avvento della Termodinamica, differentemente dalla Fisica newtoniana di tipo deterministico, segnalò i limiti posti dalla natura all’utilizzo delle sue forze. Si iniziò nello studio della Fisica a considerare la complessità di un sistema nel suo insieme. La Fisica tentò di comprendere la significatività del movimento e del ruolo degli atomi e delle molecole in un sistema complesso e finì con il dichiararsi provvisoriamente sconfitta. La Biologia e la Medicina utilizzarono invece il metodo sperimentale attraverso una sequenza progressiva delle loro scoperte e l’istituzione di una gerarchia dei costituenti di un organismo vivente. Si partì dal presupposto di esattezza di un modello universale, la macchina uomo, che doveva funzionare perfettamente perché immagine ridotta di un modello naturale più ampio e si procedette a smontare il sistema. Il determinismo positivistico finì per appoggiarsi sulla convinzione che bastasse comprendere le singole parti e la fisiologia dei vari organi e apparati per capire come funzionasse il tutto di un organismo vivente. Con la totale aderenza all’ideale conoscitivo illimitato di una scienza ideale, piuttosto che reale, si identificò la possibilità concessa alla medicina di prevedere l’evoluzione futura di ogni fenomeno biologico a partire da una conoscenza sicura delle leggi che lo regolassero. Le cose non stavano così. Jules-Henri Poincaré (1854-1912) intuiva in quegli stessi anni la Teoria del Caos che Edward Lorenz (1917-2008) avrebbe portato alle sue estreme conseguenze. La Teoria del Caos affermava come in un sistema fisico complesso, dove interagivano tre o più componenti, risultasse impossibile fare previsioni esatte sull’esito finale di una tale interazione. Questo avveniva perché era sufficiente una piccola variazione iniziale nello stato del sistema per dare luogo alla possibilità di esiti finali ogni volta differenti 9,10.

Nell’epoca di passaggio tra il XIX e il XX secolo la medicina iniziò a costruire il proprio futuro avendo a che fare con il più complesso dei sistemi conosciuti, vale dire l’uomo, senza tenere conto di questi presupposti epistemologici. La cosa non sarebbe rimasta senza conseguenze seppure mascherata dai successi che si stavano raggiungendo e che si sarebbero comunque ottenuti nella lotta alle malattie e al dolore. Naturalmente questo metodo binario che creava in continuazione un nemico da distruggere per aumentare la conoscenza pretendeva di costruire un terreno di consenso bene articolato e funzionale a questa rappresentazione. Divenne comune nelle Dittature rosse e in quelle nere del XX secolo presentare all’opinione pubblica dei fattori di ostacolo da rimuovere, dei nemici politici e sociali da ostacolare, degli avversari da annichilire. Una parte della ricerca scientifica si adattò a queste richieste e accettò una visione della realtà di tipo binario utile ai detentori del potere che la finanziavano e che avevano innescato il circuito: ipotesi-finanziamento-indagine-scoperta-nuovo finanziamento accompagnato da onori e potere (Fig. 1).

La verità di un’affermazione e di una teoria si collocavano radicalmente da una parte e il falso e il nemico del vero dall’altra. Il piano etico della ricerca venne pertanto a volte accantonato perché utile e necessario era solo ciò che funzionava, che avvantaggiava la comunità di riferimento, una nazione e poi un popolo impegnati al raggiungimento della supremazia sulle altre comunità umane. Era quello che sarebbe diventato presto il Volk tedesco e il totalitarismo di Adolf Hitler 11 (Fig. 2).

Figure e tabelle

Figura 1.Le difficoltà di un ragionamento medico clinico libero ed efficace.

Figura 2.Tibet, anno 1938. Misure antropometriche effettuate da una squadra di esperti delle SS inviati dal capo nazista di questo corpo di élite del Nazismo, Heinrich Himmler, per delineare le origini di una presunta razza ariana.

Riferimenti bibliografici

  1. Premuda L. Metodo e conoscenza da Ippocrate ai nostri giorni. CEDAM: Padova; 1971.
  2. Bernard C. Introduzione allo studio della medicina sperimentale. Feltrinelli: Milano; 1973.
  3. Duhem P. La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura. Il Mulino: Bologna; 1978.
  4. Perozziello FE. Storia del pensiero medico. IV Volume. Mattioli: Fidenza (Parma).
  5. Hume D. Opere Filosofiche. Laterza: Roma-Bari; 2008.
  6. Einstein A. Relatività: esposizione divulgativa. Bollati Boringhieri: Torino; 1996.
  7. Perozziello FE. Storia del pensiero medico. III Volume. Mattioli: Fidenza (Parma).
  8. Losee J. Filosofia della scienza, un’introduzione. Il Saggiatore: Milano; 2001.
  9. Poincaré JH. Il valore della scienza. Dedalo: Bari; 1992.
  10. Lorenz E. The essence of chaos. University of Washington Press (1880): Washington (USA); 1995.
  11. Mosse GL. Le origini culturali del Terzo Reich. Il Saggiatore: Milano; 2015.

Affiliazioni

Federico E. Perozziello

Medico Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio, Specialista in Chemioterapia, Storico e Filosofo della Medicina

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2021

Come citare

Perozziello, F. E. (2021). Evidenza e compassione - Terza parte. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 36(1), 59-62. https://doi.org/10.36166/2531-4920-A062
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