Evidenza e compassione - Prima parte
Abstract
La nozione di Evidenza è una delle più ambigue che la filosofia e il pensiero umano abbiano mai potuto contemplare. Definire l’evidenza vuol dire per prima cosa essere sicuri che questa idea contenga un significato affidabile. Tutto il mondo della natura segue invece leggi probabilistiche, legate alla presenza della Seconda Legge della Termodinamica. L’ideologia della fine del XIX secolo contemplava una costruzione del percorso di conoscenza e di progresso di tipo lineare, legato a mete certe da raggiungere, un progettare e un fare dello scienziato che consisteva nel frammentare ogni problema in tanti quesiti più semplici i quali fossero a loro volta risolvibili. L’accrescere la conoscenza su di un determinato fenomeno avrebbe portato inevitabilmente alla comprensione dello stesso. Era come se lo studioso della natura si fosse trovato di fronte a un libro fatto da pagine che recavano un unico quesito cui rispondere, ottenere la risposta a una di quelle pagine avrebbe consegnato il lasciapassare per poter leggere la successiva. Il versante opposto del termine di Evidenza finì con l’essere rappresentato, nelle attività scientifiche, dal sentimento della Compassione. Tuttavia anche questa disposizione dell’animo umano rivelò delle ambiguità di significato e di obiettivi dipendenti da chi aveva formulato e praticato la Compassione stessa.
Articolo
“Non si conosce il vero, se non si conosce la causa” Aristotele di Stagira, Metafisica, II
Il tempo dell’Uomo è colmo di vittime dell’Evidenza. Non si contano i precursori, gli ammaliati dalle loro intuizioni più o meno geniali, le vittime delle immagini proiettate dalle loro idee. Come in un film di cui si conosca perfettamente la fine, mentre a quasi tutto il resto del Mondo non importa granché di questi dettagli, chi possieda un frammento della verità di una scoperta scientifica può rimanere testimone di conoscenze troppo grandi per essere nella disponibilità di una sola anima. Il fisico e matematico Ludwig Boltzmann si suicidò il 5 settembre del 1906. L’Impero austro-ungarico sembrava allora perfettamente vitale e idoneo a presidiare buona parte dell’Europa. I suoi Popoli, come era solito chiamarli il vecchio imperatore Franz Josef, parevano convivere pacificamente sotto l’insegna dell’Aquila bicipite che sorvegliava con fermezza le frontiere con un altro residuo del passato che emanava ancora la sua influenza sui Balcani, il logoro Impero ottomano. Boltzmann insegnava fisica teorica a Vienna dopo una vita di successi accademici e di intuizioni scientifiche importanti che avevano generato contro di lui una schiera di nemici. Le sue teorie fisico-matematiche avevano fatto luce intorno al Secondo Principio della Termodinamica di cui aveva dato un’interpretazione probabilistica destinata a non essere popolare nella Germania del Kaiser che aspirava a ben altre sicurezze, affermazioni certe legate a un potere incontrastato in molteplici campi dell’attività umana 1.
Boltzmann era il più geniale fisico della sua epoca, ma era un uomo fragile e affetto da un disturbo di personalità bipolare che oggi conosciamo meglio nella sua complessità biochimica e clinica. La morte precoce del figlio maggiorenne non aveva migliorato la situazione esistenziale di un genio che si trovava a proprio agio nell’armonia della matematica e meno nei rapporti con gli altri uomini. Aveva intuito come la materia, in determinate condizioni di stato e di temperatura, se ne infischiasse di comportarsi come avevano predetto dovesse fare Newton e prima di lui Galileo e Francesco Bacone e come continuavano a sostenere i più autorevoli fisici e accademici del tempo. Non sempre il principio di analogia pareva funzionare alla perfezione e in certi casi le molecole di un gas sottoposte al riscaldamento andavano incontro a un tipo di moto che non era possibile prevedere secondo una sequenza fisico-matematica classica. Si disponevano irregolarmente queste molecole, in una modalità descrivibile tenendo conto di traiettorie casuali, di percorsi che solo attraverso dei calcoli basati sulla fedeltà a quest’ipotesi era possibile rappresentare. La Seconda Legge della Termodinamica, approfondita dal fisico austriaco, minava alla base la natura rassicurante dell’Universo Newtoniano. Introduceva un concetto pericoloso per un ricercatore privo di fantasia, vale a dire che la materia potesse essere provvista di una propria capacità irregolare di disporsi e di strutturarsi e poi fosse in grado di annullare di colpo la propria morfologia e i fini per continuare imperterrita verso uno stato di massimo disordine (Fig. 1) 1,2.
La conseguenza di questa valutazione era inquietante. Se esistevano dei piani divini dietro il mondo sensibile quale gli scienziati lo avevano da sempre indagato, questi progetti andavano cercati con altri strumenti e, comportamento questo ancora più difficile a praticarsi, con altri occhi. Nella sua visione puramente teorica, ma universale, il fisico austriaco arrivò a costruire una cosmogonia alternativa agli altri modelli fino ad allora immaginati. L’universo che conteneva come trascurabile particolare anche gli esseri umani non era altro che un’oasi di entropia relativa, una zona a basso disordine atomico e molecolare in un’immensità convulsa legata a un universo primordiale e barbarico caratterizzato da un altissimo stato di disordine entropico. Per motivi puramente casuali e inspiegabili si era formata una zona di relativa stabilità nella disposizione della materia e da questa situazione contingente era nato l’Universo percepibile controllato da alcune leggi fisiche e chimiche relativamente costanti. Ne derivava un’ipotesi legata a una fluttuazione continua del Cosmo in cui l’Universo non si presentava come omogeneo. Gli umani vivevano per motivi imperscrutabili in una regione particolare, un Universo isolato e relativamente stabile che era tuttavia lontano dall’equilibrio termodinamico, mentre altre e diverse regioni del Cosmo avrebbero potuto trovarsi in tale stato oppure essersi costituite come delle entità ancora più in disordine. Un numero incalcolabile di atomi e di materia disposti casualmente, privi di ogni disegno superiore 2.
Per misurare questa caratteristica di instabilità del mondo fisico Boltzmann ideò una famosa formula matematica che dopo la morte dello scienziato venne scolpita sulla sua tomba ancora presente in un cimitero di Vienna. La formula di Boltzmann risulta così descritta: S = k log W dove S è l’entropia, W è la probabilità dello stato di dispersione molecolare e k una Costante, detta appunto di Boltzmann (Fig. 2) 2,3.
L’evoluzione della termodinamica portò a una radicale differenziazione nel modo di intendere i fenomeni fisici. Alla fisica macroscopica osservabile direttamente si contrapponeva ora una fisica delle particelle e della realtà microscopica governata da connotazioni probabilistiche. Questa concezione fu fortemente osteggiata da alcuni fisici europei di quel tempo come Ernst Mach, i quali avevano una visione conoscitiva di tipo empirista e basata sui fenomeni fisici che si potevano verificare e misurare con precisione. Il tempo e le successive scoperte della fisica moderna avrebbero reso giustizia al genio di Boltzmann, incompreso dai suoi contemporanei. Si era ancora una volta dimenticato di un’antica lezione formulata da Immanuel Kant un secolo prima e che sarà bene rileggere:
Ludwig Boltzmann si tolse la vita in un piccolo albergo di Duino, alla periferia di Trieste, dove si era recato con la moglie e la figlia per un periodo di vacanza. Si impiccò nella stanza dell’albergo con la corda della tapparella mentre i suoi congiunti erano in spiaggia. Sarà stato forse per un momento di sconforto, un abisso di solitudine irragionevole da cui era stato difficile tirarsi fuori. Boltzmann era un uomo fragile e dagli sbalzi di umore improvvisi. Le maggiori personalità della fisica a lui contemporanee gli erano ostili. Magari non si suicidò per difendere la propria idea di Entropia, ma di certo non era attrezzato a sostenere l’isolamento ideologico oltre che umano in cui era stato relegato da buona parte dei suoi colleghi. Come avrebbe scritto qualche decennio più tardi il filosofo della scienza americano Thomas Khün, il Paradigma scientifico del tempo di Boltzmann era troppo solido e protetto dal pregiudizio per essere infranto. Tuttavia il fisico austriaco nel criticarlo si era accorto come pochi altri che quello che veniva descritto dalle condizioni sperimentali poteva mostrare delle crepe che rendevano insoddisfacente la costruzione di un insieme teorico, un edificio basato su alcune fondamenta non sempre certe.
Scrisse Boltzmann:
Cosa voleva dire il fisico con queste parole che potrebbero sembrare la pietra tombale di ogni scienza sperimentale? Ritengo volesse metterci in guardia dal pericolo di interpretare arbitrariamente il mondo fisico che ci circonda facendoci condurre per mano da alcune categorie del pensiero che sono proprie degli esseri umani consapevoli della realtà come essi la prefigurano, non come essa sia in quanto essenza di sé. Questa visione precorritrice di domande che superavano il contesto della fisica sperimentale non poteva essere accettata senza contestazioni da parte dei Contemporanei. L’ideologia della fine del XIX secolo contemplava una costruzione del percorso di conoscenza e di progresso di tipo lineare, legato a mete certe da raggiungere. Un progettare e un fare dello scienziato che consisteva nel frammentare ogni problema in tanti quesiti più semplici i quali fossero a loro volta risolvibili. Il postulato di partenza affermava come l’accrescere della conoscenza su di un determinato fenomeno avrebbe portato inevitabilmente alla comprensione dello stesso. Era come se lo studioso della natura si fosse trovato di fronte a un libro fatto da pagine che recavano un unico quesito cui rispondere. Soltanto l’ottenere la risposta contenuta in una di quelle pagine avrebbe consegnato il lasciapassare per poter leggere la successiva.
Dall’alto della Tour Eiffel, in quell’anno 1889 che vide l’Esposizione Universale di Parigi segnare un trionfo apparente dell’uomo sulla Natura, lo sguardo poteva immaginare che non ci sarebbero state difficoltà insormontabili da superare per gli scienziati e i ricercatori. Il fascio di luce proiettato dall’alto della Torre, la costruzione più alta che la mano dell’uomo avesse mai eretto, respingeva le tenebre dell’ignoranza e consacrava la verità ottenuta dalla fede nella Scienza come la più semplice e legittima delle eredità da raccogliere. Eppure, all’ombra di quel grande manufatto e in quegli stessi anni il fisico Pierre Duhem e il matematico Henri Poincaré sostenevano come non si dovesse confidare troppo sulla precisione e l’affidabilità delle teorie scientifiche 5,6.
Le teorie erano costruite, oltre che su diversi fatti sperimentali, anche su alcune formule e generalizzazioni matematiche. Appoggiandosi le une alle altre queste costruzioni astratte della mente dell’uomo avrebbero finito per l’influenzarsi a vicenda e per alterare la rappresentazione della realtà. Nel XX secolo ormai inoltrato il logico e filosofo statunitense Willard Van Orman Quine arrivò, attraverso una sua lucida posizione di sintesi, alle stesse conclusioni, affermando:
In questo modo veniva ribadita l’ipotesi di partenza di Pierre Duhem che aveva visto la costruzione di una teoria scientifica come un insieme basato su diverse valutazioni incapaci di reggersi da sole e allo stesso tempo fuorvianti nel loro stesso esito. La Medicina del tempo non fu sfiorata da questi dubbi epistemologici. Scelse di seguire un percorso di accumulazione progressiva delle conoscenze e delle nozioni di tipo induttivo senza fermarsi a riflettere su dove questa strada l’avrebbe condotta, a quali sviluppi di mancanza di senso critico nei confronti del metodo scelto sarebbe stata trascinata. Dal momento che forma e metodo sono sostanza di ciò che rappresentano, i risultati ottenuti dall’adesione incondizionata all’indagine sperimentale e alla statistica sembrarono dare ragione a questa scelta pratica 8,9.
Malattie che avevano flagellato per secoli l’Umanità, come la sifilide, la tubercolosi, la peste e il colera potevano essere, se non eliminate, almeno circoscritte. All’inizio del secolo XX i Neo-Positivisti del Circolo di Vienna richiamarono l’attenzione sul fatto che ogni conoscenza scientifica dovesse sempre derivare dall’esperienza. Sostenevano questa certezza con convinzione per non scivolare sulla buccia di banana di ciò che non fosse verificabile e in primo luogo per sottrarsi alla temuta e disprezzata Metafisica. Il contatto con la realtà, la corrispondenza con questa, come la definì uno dei fondatori del Circolo viennese, divenne l’unico criterio accettato di conoscenza orientando le molteplici ricerche scientifiche che venivano condotte nelle varie discipline alla coerenza sulla modalità di investigazione, non sul significato più profondo della ricerca stessa. Un lavoro di indagine sulla natura e sul senso dell’essere uomo che un tempo era consistito nel cercare di apprendere una parte di una verità più ampia, una sicura Episteme legata a un’interpretazione complessa e consolatoria del mondo. Questa valutazione e la sua metodologia sperimentale trionfanti partivano dal presupposto che l’esperienza scientifica fosse un tipo di conoscenza certa e indubitabile. Un modo di conoscere la natura basato sull’intervento sperimentale che si esprimeva e comunicava i propri risultati attraverso la statistica e si autoalimentava con il crescere dei dati sperimentali legati all’ipotesi di partenza da verificare. Si trattava di una modalità d’investigazione che era gravata da un peccato originale di cui non era in grado di accorgersi mentre non si poneva troppe domande di tipo logico-formale, né si sottoponeva agli strumenti di verifica seguendo la lezione dei grandi logici del passato e di quelli vissuti tra il XIX e il XX secolo, come Gottlob Frege e Charles Sanders Peirce 10.
Non teneva conto, questa ricerca medica moderna, che occuparsi dell’oggetto di studio più complesso presente su questo pianeta, vale a dire l’Uomo, avrebbe comportato il dovere fare i conti con dei fenomeni che si potevano accettare unicamente tenendo conto dei concetti di probabilità, unicità e irripetibilità. Si trattava di quell’insieme di variabili che Boltzmann aveva previsto per i fenomeni atomici e molecolari e che la Fisica Quantistica e la Teoria della Relatività di Albert Einstein cominciavano allora a svelare per il Macrocosmo.
Figure e tabelle
Riferimenti bibliografici
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- Mussardo G. Un genio disordinato. Ulisse nella rete della scienza. SISSA.Publisher Full Text
- Kant I. Prolegomeni ad ogni futura metafisica. Laterza: Bari; 1982.
- Barone F. Il neopositivismo logico. Laterza: Bari; 1977.
- Duhem P. La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura. Il Mulino: Bologna; 1978.
- Quine WVO. Il problema del significato. Ubaldini: Roma; 1966.
- Perozziello FE. Storia del pensiero medico, dal positivismo al circolo di Vienna. Mattioli: Fidenza (Parma).
- Geymonat L. Storia del pensiero filosofico e scientifico. Garzanti: Milano; 1970.
- Federspil G, Vettor R. La “evidence-based medicine”: una riflessione critica sul concetto di evidenza in medicina. Ital Heart J Suppl. 2001; 2
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