Scienza e coscienza
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Il lavoro del prof. Viafora (Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o cure palliative? Occorre premettere che si tratta di un commento di natura speculativa ad un altro lavoro, quello della SIAARTI: Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o cure palliative? “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura, che cerca invece di mantenersi all’interno di un ambito prevalentemente tecnico.
Il lavoro del prof. Viafora è un commento di natura speculativa ad un altro lavoro: Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o cure palliative? “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura.
Questi documenti utilizzano due linguaggi diversi, anche se in parte complementari. Linguaggi che li rendono legati tra di loro, ma non interamente riferibili nella loro complessità. Il commento del prof. Viafora si muove su di un piano di critica filosofica sin dalla sua premessa, in cui accenna all’introduzione nel contesto delle cure mediche di un concetto di kantiana memoria: il fatto che la medicina non sia una mera disciplina tecnica. Ricordava infatti Immanuel Kant come la medicina fosse caratterizzata da una cultura di tipo morale (moralische kultur), vale a dire da un tentativo di trattare in modo morale la fisicità dell’uomo e il suo rapporto con il dolore e la morte.
È triste dover constatare come ci sia bisogno di affermare una simile evidenza, ma a tal punto di appiattimento ideologico e culturale è arrivata la professione medica che desta interesse qualsiasi proposta di interpretazione della professione che non rientri nei parametri di efficienza ed efficacia tecnici oppure economici. Questo fatto non è certo imputabile al prof. Viafora oppure ai colleghi estensori del documento SIAARTI, ma a come la medicina è stata insegnata, a come sono stati formati i giovani medici negli ultimi decenni. Colleghi a cui sono stati mostrati i dettami dell’economia sanitaria, di evidenze statistiche farmacologiche più o meno certe e celati invece i momenti di riflessione filosofica ed umana sul significato del loro percorso professionale, relegandoli magari nell’aneddotica o nel superfluo.
L’articolo del prof. Viafora mi pare ampiamente condivisibile come strumento di confronto per un pubblico di addetti ai lavori. Mi permetto invece di nutrire qualche perplessità a riguardo di un lettore più occasionale, non tanto per la correttezza ineccepibile delle argomentazioni, quanto per la necessità di doverle restringere in uno spazio tipografico relativo che potrebbe renderle meno fruibili. Prendiamo la discussione a riguardo della sfida di comunicare la morte. Presso l’Ordine dei Medici di Milano abbiamo recentemente tenuto un corso ECM su questo argomento dal titolo: La morte, un problema medico, un problema umano. L’interesse per l’evento è stato significativo, in oltre cinque ore però siamo appena riusciti a trattare i fondamentali del problema.
La morte è un argomento difficile da studiare e discutere anche per i medici, che ne sono tuttavia così frequentemente interessati da un punto di vista professionale e umano. Richiede tempo e pluralità di voci e pensieri. Un tale capitolo necessita di essere integrato in un percorso di formazione approfondito. Non può essere dato per scontato nella sua essenza, la morte appunto, spostando il baricentro della discussione su come comunicarla.
La morte è un argomento difficile da studiare e discutere anche per i medici, che ne sono tuttavia così frequentemente interessati da un punto di vista professionale e umano.
Un’altra problematica sul tappeto è quella del rapporto tra i medici, i pazienti e i loro familiari. Anche in questo caso la sfida si muove su di un terreno di tipo culturale e non tecnico. Concordo sulla difficoltà di realizzare e divulgare premesse e tematiche tecniche in un contesto culturale inadeguato in cui il periodo del fine vita rimane un momento temporale di cui è difficile occuparsi per i sanitari e per tutti gli esseri umani in genere. Questa riflessione ci pone davanti all’importanza e alla vastità dell’emergenza formativa che si presenta. Appare difficile calare dall’alto delle linee guida a forte componente etica su di una categoria professionale, i medici, in cui da decenni gli studi e gli strumenti filosofici attinenti il loro lavoro, il significato complesso ed umano della professione, vengono di solito e sbrigativamente relegati in una riserva indiana per pochi appassionati.
L’evoluzione della medicina viene sommariamente immaginata e illustrata come un mero progresso tecnico, più o meno casuale, più o meno geniale, completamente svincolata dal contesto culturale del tempo.
L’evoluzione della medicina viene sommariamente immaginata e illustrata come un mero progresso tecnico, più o meno casuale, più o meno geniale, completamente svincolata dal contesto culturale del tempo in cui si è verificata. Eppure se si leggono con attenzione le biografie di molti innovatori del passato ci si accorge che non è stato così. Molti illustri scienziati della medicina non erano affatto dei tecnocrati puri, anzi. La medicina appariva loro come una chiave di comprensione del reale, come uno strumento più vantaggioso di altri per aprire la porta sui significati profondi dell’esistenza, senza magari trovarne una soluzione radicale, ma traendone comunque la forza e la possibilità di accettarla, l’esistenza, come un significato epistemico, complesso e consolatorio. Una possibilità legata in modo indissolubile alla capacità di risolvere praticamente alcuni problemi della sofferenza umana.
La goccia che ha fatto probabilmente traboccare il vaso del disagio esistenziale e professionale di molti è stata senza dubbio il trionfo, non troppo ostacolato, più per comodità e acquiescenza, unita ad un po’ di conformismo, che per effettiva aderenza ideologica, della Medicina Basata sull’Evidenza. Forse è arrivato il momento di affermare come non sia possibile accettare in modo acritico certe verità, annunciate quasi fossero rivelate e consolatorie, basate sulle revisioni statistiche di migliaia di casi clinici, valutati magari da chi non li ha affrontati nella loro realtà biologica e assistenziale. Quasi che l’aumentare il numero dei soggetti indagati sia una garanzia sicura della riproducibilità di un evento, assolutamente reale sulla carta, ma irreale nel suo misurare la clinica attraverso una simulazione statistica. Il tutto senza chiedersi, neppure per un istante, dove potrebbe portare una visione così totalmente priva di qualsiasi dimensione epistemica della medicina.
Nessuno si dovrebbe sognare di abbandonare la metodica sperimentale di origine galileiana! Questo discorso riguarda una critica agli eccessi di teorizzazione statistica applicati al più irregolare, indeterminabile e complesso degli oggetti di studio scientifico: il corpo umano.
Chiariamo un punto importante: nessuno si dovrebbe sognare di abbandonare la metodica sperimentale di origine galileiana! Questo discorso riguarda invece una critica agli eccessi di teorizzazione statistica applicati al più irregolare, indeterminabile e complesso degli oggetti di studio scientifico: il corpo umano. Le altre scienze hanno dovuto fare i conti da tempo con la dimensione probabilistica della conoscenza e non ne sono uscite affatto diminuite. La matematica ha dovuto misurarsi con i teoremi di Kurt Gödel, che hanno provato come fosse impossibile definire con certezza la conclusione assiomatica di una dimostrazione con lo stesso linguaggio utilizzato per studiarla. La fisica moderna si è dovuta confrontare con il principio di indeterminazione del premio Nobel Werner Heisenberg. Secondo questo principio non è possibile misurare con esattezza due caratteristiche contemporanee di una stessa particella atomica: tanto più si tenterà di ridurre l’imprecisione sulla conoscenza di una variabile, tanto più aumenterà l’incertezza sul valore di una seconda posseduta dalla stessa particella. La chimica e la termodinamica hanno dovuto accettare gli studi e le conclusioni di Ludwig Boltzmann sulla disposizione imprevedibile e probabilistica delle molecole di un gas sottoposte a riscaldamento: la materia di cui è fatto l’universo pare tendere all’entropia in modo inarrestabile, non curandosi delle aspettative di finalismo della psicologia umana.
La medicina non si è posta questi problemi. Continua ad utilizzare una metodologia scaturita nella seconda metà del XIX secolo dal Positivismo e dalla sua un po’ ingenua credenza in una scienza capace di generare un sapere sempre affidabile e perfettibile. Ha relegato il dibattito epistemologico che ha scosso e continua ad agitare le altre scienze in soffitta, senza fare i conti con Karl Popper, Thomas Khun e la discussione metodologica che ha attraversato il XX secolo a partire dal Circolo di Vienna. È un errore che presto o tardi pagherà e di cui sta già soffrendo, per il proprio negarsi ad affrontare coscientemente la complessità e la frammentazione specialistica del sapere medico, per la propria rinuncia mai dichiarata a tentare di porvi rimedio attraverso la interdisciplinarietà dei saperi.
Terzo e non ultimo per importanza di argomento è quello relativo alla diversificazione degli attori e dei fattori medici e legali che si intrecciano nelle scelte del fine vita. Non entro nella discussione dei singoli punti riportati. Ognuno di essi richiederebbe delle valutazioni profonde e di difficile, per non dire impossibile, certezza conclusiva. Semmai questi capitoli necessariamente irrisolti testimoniano la necessità di promuovere, in modo ormai inderogabile, un processo formativo diffuso e obbligatorio della classe medica sui temi della bioetica e del rapporto tra medico e paziente.
Una maggiore diffusione del dibattito culturale e formativo intorno a problemi irrinunciabili nella nostra professione potrebbe servire a uscire dalla sporadicità in cui per anni si è preferito relegare la riflessione sul senso di certe scelte mediche, compiute nella solitudine delle coscienze.
Quando ci si muove su di un terreno etico il suolo è sempre minato e non possono certo delle linee guida disinnescarlo nella sua interezza. Una maggiore diffusione del dibattito culturale e formativo intorno a problemi irrinunciabili nella nostra professione (il dolore, le scelte del fine vita, la morte, l’empatia, l’ospedale come luogo di reclusione, ecc.) potrebbe invece servire a uscire dalla sporadicità in cui per anni si è preferito relegare la riflessione sul senso di certe scelte mediche, compiute nella solitudine delle coscienze e purtroppo anche in modo non sempre consapevole. Il medico e soprattutto il medico clinico deve riappropriarsi del proprio ruolo di intellettuale. Riacquistare un’autonomia e dignità di pensiero filosofico che ha demandato negli ultimi decenni ad altre figure professionali che non interagiscono però direttamente con il malato.
Mi auguro che le tematiche sollevate facciano da volano alla promozione, nel contesto dei congressi e dei momenti formativi propri delle varie tipologie di medici specialisti, di sessioni di aggiornamento di Medical Humanities, di Medicina Narrativa, di Epistemologia medica, cui sia riconosciuto un credito ECM almeno pari a quello delle sessioni di tipo tradizionale. Questo per evitare che un dibattito culturale determinante per il futuro del medico venga recapitato ai singoli colleghi senza una condivisione culturale profonda e critica delle problematiche. La storia recente è ricca in proposito di disinformazione e di pressapochismo mediatico che si vorrebbe non vedere ripetuta. Davanti a importanti eventi di larga risonanza si è assistito quasi sempre a un silenzio argomentativo dei medici, un segnale inquietante di una scelta di ignorare i problemi filosofici sollevati dalla medicina, oppure di demandarne la trattazione ad altri: il teologo, il filosofo professionista, il sociologo, il giornalista, ecc. Spesso ci si è rifugiati in un eccessivo e ostentato tecnicismo, magari utilmente difensivo, ma incomprensibile per il grande pubblico. Si potrebbe concludere ricordando come non vi sia nulla di interamente scontato o di prevedibile in una formulazione prognostica, tranne l’umanità necessaria nel comunicarla. Formare a questa umanità è la sfida, la tecnica e la statistica seguono di concerto, non in opposizione.
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