Il rapporto tra medico e paziente
Abstract
Il rapporto tra medico e paziente non è una relazione sociale ed esistenziale di tipo statico. È stato sottoposto ad una evoluzione e ad un affinamento con il passare del tempo ed i progressi della medicina. Una riflessione sulla complessità di tale rapporto può essere utile a raggiungere una migliore consapevolezza del proprio ruolo di medici ed a sostenere con maggiore efficacia il confronto con il paziente.
Articolo
All’origine stessa della medicina si costituì una riflessione dell’uomo sulla natura e sui processi biologici presenti nell’ambiente in cui egli viveva, un insieme di azioni che portavano il medico a confrontarsi con la realtà costituita dal paziente, dalla malattia e quindi dall’essere umano sofferente. La malattia e la morte hanno segnato e continuano ad indicare l’irruzione della casualità come forza incontrollabile nell’esistenza dell’individuo. Il Caso o Caos, per gli antichi Greci, costituiva infatti un fattore di massimo potere nella vita delle persone. Rivestiva il ruolo di un elemento di angoscia e di terrore profondi, tanto che venne creata nella simbologia mitologica classica una divinità che equilibrasse la sua azione, una divinità cui essi stessi diedero il nome di Necessità (Anánche). La Necessità aveva un potere superiore a quello degli stessi Dei dell’Olimpo, serviva a contrastare il Caso, a delimitare il suo effetto di disordine, incertezza, ansia ed insicurezza sulla vita degli uomini 1. L’Anánche si presentava come un fattore di controllo dell’angoscia esistenziale, un elemento che permetteva di dare un senso all’esistenza e di sopportare la malattia e la morte o almeno di farsene una ragione. Nella tragedia di Eschilo ad esempio, Oreste deve uccidere sua madre Clitemnestra e l’amante di lei Egisto per vendicare l’omicidio del padre Agamennone. Deve quindi adempiere a quello che percepisce come il proprio dovere primario ed inevitabile. Una vendetta che appare come un destino tragico e definito. Esisteva anche una seconda dea che presiedeva alle umane sorti, essa era la Tyche, figlia di Hermes, il dio protettore dei medici, dei commercianti e dei ladri e che era identificabile con la Fortuna tout court. Ne derivava che l’Anánche assumeva una natura di tipo obbligato e drammatico, mentre la Tyche appariva come una divinità leggera e più benevola, che distribuiva i suoi doni, sempre positivi, con una modalità compiaciuta ed un po’ distratta. La malattia e la morte, che ad essa poteva seguire, costituivano l’ingresso dell’irrazionale non atteso e temuto nella vita di ogni uomo, un avvenimento che poteva portare con sé un oscuro senso di colpa o di un’inspiegabile innocenza punita, suscitando domande del tipo: perché proprio a me? All’inizio dei tempi storici, per risolvere questo contrasto, era possibile ricorrere all’ausilio di una figura magica, un uomo che potesse fare da intermediario tra il malato e l’oscura forza della natura che aveva causato il suo male. Ai primordi della civiltà, il rapporto iniziale tra medico e paziente e la loro interazione con la malattia conobbe un atteggiamento di fondo che potremmo definire come il Paradigma terapeutico dello Stregone o dello Sciamano. Si trattava di una relazione umana basata sull’ambivalenza affettiva, su di una commistione di rispetto e di timore, di paura e di rassegnato abbandono a colui che possedeva i segreti dell’arte della cura. Sappiamo che a metà circa del VI secolo a.C., sulle coste ioniche dell’Asia Minore, ebbe luogo un evento eccezionale. Alcuni uomini iniziarono ad affrontare le domande poste dagli eventi naturali in termini non soltanto di osservazione impotente, ma attraverso un intervento attivo nei confronti degli stessi. La loro nuova esperienza consisteva nel cercare di comprendere la natura osservando da vicino i fenomeni e tentando di riprodurne gli effetti. La riproducibilità è infatti alla base di ogni sapere scientifico inteso come conoscenza autorevole e trasmissibile della realtà. Anche la medicina nasce come scienza sulla base della riproducibilità. Nell’antica Grecia, grazie proprio alla riproducibilità, la medicina riesce ad organizzarsi in scuole.
Queste tramandano un sapere basato su forti elementi di empirismo, che lo affrancano lentamente dalla magia. Nel confronto con gli stregoni ed i guaritori il medico antico cominciava ad avvantaggiarsi, perché poteva contare su di un bagaglio di informazioni condivise e trasmesse da un maestro ai propri discepoli. Ippocrate (460-370 a.C.) è la figura dominante di questa evoluzione. Nel rapporto medico-paziente della medicina ippocratica i due pilastri portanti erano la philia, cioè l’amicizia per l’essere umano che chiedeva aiuto e l’agápe, l’affetto vero e proprio per il malato 2. Qualità indispensabile del buon medico, definito in lingua greca iatròs agathòs, doveva essere non solo la tecnofilia, l’amore per l’arte medica, ma anche la filantropia, l’amore per l’uomo in quanto tale. La medicina per gli antichi Greci era un’arte, cioè una Tecne, una disciplina basata su di un insegnamento teorico e su di un corrispettivo pratico, che costituiva il punto di arrivo armonico dell’apprendimento. Un concetto di arte molto diverso da quello di occupazione rivolta all’estetica e di origine spesso irrazionale, come è stata intesa in seguito. Secondo Aristotele, che era figlio del medico Nicomaco, il rapporto tra medico e paziente era nato come un’amicizia tra disuguali. La ricerca di un’unità di intenti tra loro, per riacquistare o conservare la salute, comportava uno sforzo per raggiungere dei fini comuni, i quali si giustificavano attraverso la convinzione dell’esistenza di un bene unanimemente ritenuto tale e costituito dalla conservazione della vita 3. Nessuna delle due parti aveva a priori la misura identica di questo bene, che si costituiva nel dialogo e si realizzava nel reciproco adattarsi dell’uno all’altro attraverso la conoscenza. Si trattava di un’amicizia, ma era anche un incontro di esistenze e di esperienze tra il medico ed il suo paziente. Anche se in Aristotele il rapporto del medico con il malato poteva definirsi all’origine squilibrato ed asimmetrico, poiché al sapere e potere del primo faceva da contrappunto la dipendenza passiva del secondo, questa condizione era poi riequilibrata dai doveri di cui il medico responsabilmente si caricava per garantire al paziente di essere adeguatamente curato. Mentre nell’Antichità classica la malattia recava in sé un significato disperante di distruzione dell’io corporeo e di dispersione dell’anima nel mondo delle ombre, da cui non vi era alcun ritorno (pensiamo al mito di Orfeo ed Euridice), nel Medioevo cristiano per la malattia iniziò ad essere utilizzato il termine latino di infirmitas, che poteva rivestire significati positivi 4. La sofferenza, il dolore e l’alterazione visibile del corpo riproducevano nell’essere del malato le sofferenze del Cristo crocefisso. Un malato che rivestiva un duplice ruolo: da un lato testimoniava, attraverso la corruzione del proprio corpo, la presenza di colpe di cui la malattia si faceva dichiarazione e manifestazione evidente. Dall’altra, con la propria imitazione del Cristo sofferente, poteva pervenire alla guarigione dell’anima prima che dello stesso corpo. Nel Medioevo il concetto stesso di esistenza risultava mutato. Il tempo cristiano era ora un tempo rettilineo, un percorso verso la salvezza, non più un tempo circolare ed immutabile, un succedersi di eventi in bilico tra il Caos e la Necessità, come era stato per i pagani. L’uomo era divenuto un viandante, un viator che percorreva il sentiero della vita cercando di mantenere la fede e di stare lontano dai peccati. Questi erano il vero male, capace di ferire l’anima e condannarla alla morte eterna. La figura del Cristo Salvatore assumeva una doppia potenzialità: quella di medico dell’anima e quella di malato Lui stesso, che si era fatto carico dell’imperfezione e della sofferenza umana per donare la salvezza all’uomo. La morte infine non era più vista come un termine irrevocabile, ma come l’inizio di una nuova vita, anzi della vera ed unica vita, vicino alla gloria di Dio e lontana per sempre dal dolore della malattia. Pertanto, il giorno della morte veniva celebrato come il dies natalis della seconda vita, il giorno della nascita più importante dopo la prova dell’esistenza terrena 4 5. Lentamente, durante le grandi epidemie di peste del Trecento e del Quattrocento, la medicina iniziò ad utilizzare i risultati dell’uso della ragione ed a distaccarsi dagli insegnamenti degli antichi e dalle convenzioni religiose. Bisognerà aspettare il Rinascimento e l’opera innovativa di figure straordinarie, come Teofrasto Paracelso ed Andrea Vesalio, per avere una significativa rottura con le posizioni del passato. In questo modo la medicina diveniva una scienza fatta da uomini per altri uomini ed accettava i confini della sua ignoranza come terreno di conoscenza e non come affermazioni di principi immutabili, basati sugli ipse dixit dei maestri del passato. La nascita della Scienza sperimentale nel Seicento e la sua evoluzione successiva nel Secolo dei Lumi, porteranno al costituirsi di una diversa figura del medico e ad una sua differente evoluzione. Avremo così, dopo l’avvento del Positivismo e la scelta di non inseguire più spiegazioni della realtà biologica basate su verità assolute, ma di accontentarsi di raggiungere verità scientifiche parziali, ma utili e dimostrabili, un nuovo paradigma professionale che potremmo definire di tipo Illuministico-razionale. Oggi sono stati fatti grandi progressi nella comprensione dei meccanismi patogenetici e delle basi genetiche e molecolari delle malattie. Grandi progressi nelle indagini diagnostiche e nelle terapie, specie quelle contro le infezioni. Questi progressi sono stati ottenuti attraverso un passaggio da una scienza osservazionale e descrittiva, basata sull’anamnesi, ad una scienza interventista, figlia della filosofia positivistica dell’Ottocento. Una scienza che pensa di poter cambiare in meglio la realtà e che questo cambiamento sia possibile in modo illimitato, necessitando solo del tempo e di maggiori risorse disponibili 6. Con una certa semplificazione, possiamo dire che si è passati da una scienza osservazionale ed aneddotica, perché basata sull’esperienza professionale personale di un numero relativamente ristretto di studiosi, all’applicazione del riscontro legato ai grandi numeri, ai trial clinici randomizzati su coorti considerevoli, arruolate per la verifica dell’efficacia delle terapie. Si tratta della prevalenza della Medicina Basata sull’Evidenza (EBM), che genera incessantemente linee guida per la gestione delle patologie e dei comportamenti dei medici stessi, la misurazione obiettiva dell’efficacia terapeutica, la morbilità, la qualità di vita, gli outcomes del paziente, ecc. 7 Il rapporto tra medico e paziente rimane però una relazione umana, che si basa sulla fiducia e sulla stima del curante e che dipende da molti fattori, legati all’incontro tra le personalità dei medici e degli esseri umani che loro si rivolgono.
Negli anni intorno al 1950 gli studi del sociologo americano Talcott Parsons hanno contribuito a far luce ed a descrivere i condizionamenti sociali che agiscono su questa relazione di aiuto. Secondo Parsons, la malattia è da considerarsi come una devianza istituzionalizzata rispetto ai ruoli necessari al funzionamento del sistema sociale. Il compito del medico è quello di accertare, controllare e reintegrare nel suo ruolo il paziente, restituendolo ad una vita attiva. La malattia è ritenuta un problema per la persona ed è riconosciuta dalla struttura sociale unicamente se è legittimata da un portatore di competenze istituzionalizzate e certificate: il medico. Sempre secondo T. Parsons la persona che viene caratterizzata dal medico come malata può essere momentaneamente esonerata dai suoi normali ruoli, ma sempre dentro un insieme di obblighi e di costrizioni. Attraverso il delinearsi della diagnosi e delle cure mediche, entrano in gioco i ruoli e le funzioni proprie del contesto sociale di riferimento dell’ammalato. Parsons definisce con accuratezza un sistema di aspettative istituzionalizzate, proprio del ruolo del malato 8 9. La società ha edificato un rapporto fiduciario tra i professionisti incaricati della conservazione della salute ed il controllo sociale sulla malattia. Alla base di questo binomio risiede il rapporto di fiducia tra medico e paziente e questo elemento giustifica le forme di istituzionalizzazione della relazione interpersonale tra il professionista ed il paziente. Fuori da questa relazione esiste il rischio che si venga a costituire una subcultura della malattia e del malato, che sfugga al controllo istituzionale esercitato dalla società. Una subcultura dove potrebbero prolificare figure sanitarie sottoposte a scarso controllo delle loro qualità professionali: guaritori, imbonitori mass-mediatici, sostenitori della “salute fai da te”. Attraverso il proprio ruolo il medico viene messo in grado di conoscere gli affari privati ed i legami affettivi del paziente in una misura complementare allo svolgimento della propria funzione. Definita in questo modo la figura del medico, si possono superare o ridurre al minimo le resistenze sociali che sarebbero altrimenti di ostacolo all’esercizio del lavoro di tutela della salute. La professione viene ad essere investita di aspettative, di vincoli, di diritti e doveri. Il medico, per esempio, ha la possibilità di intervenire in modo anche doloroso sul corpo di un altro essere umano attraverso la chirurgia. Fruisce inoltre della prerogativa di ascoltare alcune confidenze di fatti personali in una modalità profonda e priva di remore da parte del malato. Un’altra specificità fondamentale del medico è quella di esercitare un atteggiamento di protezione nei riguardi dei malati che gli sono stati affidati. Tuttavia il medico dovrebbe sempre proteggersi o pretendere di essere protetto nei confronti dei coinvolgimenti emotivi sollecitati dal paziente e particolarmente dai suoi familiari. Questi possono attirare il medico in reticoli di amicizia, di reciprocità e di rapporti di attrazione sessuale che devono essere sempre tenuti presente e che i medici devono essere preparati ad affrontare con equilibrio e saggezza. La comunicazione deve essere considerata una funzione fondamentale, da non trascurare mai. Instaurando un processo di comunicazione interpersonale corretto ed efficace con il paziente, il medico può non solo ottenere delle informazioni utili per indirizzare il percorso diagnostico e terapeutico, ma anche suscitare un buon livello di soddisfazione e di consenso, che finisce per incidere positivamente sui risultati clinici complessivi. La crisi di identità in cui versa la medicina contemporanea è anche una crisi di comunicazione tra un medico detentore di un sapere tecnico sempre più raffinato e per questo parcellare ed un paziente che oggi possiede migliori e diversi strumenti culturali per dubitare di questo sapere ed accettarlo acriticamente. Un paziente che pretende di ricevere la migliore delle assistenze e degli aiuti possibili nel migliore e più efficiente dei sistemi sanitari possibili. L’eccesso di tecnica sta costringendo il medico a porsi sulla difensiva davanti a persone che si aspettano un prodotto di salute garantito. Tutto questo avviene a spese di una disciplina scientifica, la medicina appunto, che ha connotazioni epistemologiche di tipo fortemente probabilistico 10. Non si vede allora perché il medico non debba informare correttamente l’opinione pubblica ed i media ed educarli a non aspettarsi sempre e comunque la guarigione dall’evento malattia. Questo perché il rapporto tra uomo e tecnologia è destinato a raggiungere, prima o poi, un punto di rottura irreparabile, in cui l’Intelligenza Artificiale (I.A.) sarà molto più rapida, efficiente ed economica a raggiungere la diagnosi ed a stabilire la terapia necessaria. Dove può essere allora ricollocata la priorità del ruolo del medico, dove trovare nuovi ed insostituibili spazi per la sua professionalità ed il suo carisma? Nella medicina moderna appare indispensabile un diverso approccio al malato, anche di tipo umanistico. Tuttavia parlare di umanesimo nella medicina contemporanea si rivela difficile. Domina infatti il convincimento che, qualsiasi problema venga posto ai ricercatori, questo problema possa essere risolto attraverso un’indagine accurata delle cause che lo hanno generato e che il conseguente riscontro di un rimedio sia ottenibile, prima o poi, unicamente investendo una maggiore quantità di risorse. La prevalenza della statistica nella validazione di cure e di percorsi terapeutici porta ad una rassicurante semplificazione dei processi decisionali, ma ad una minore libertà nelle scelte del medico. In tal modo, mentre il malato desidera essere curato salvaguardando prima di ogni fattore la sua individualità, appare molto più semplice e statisticamente significativo, perché coerentemente misurabile, curare la malattia invece dell’uomo, trascurando il rapporto di amicizia e di empatia che lo lega al suo medico 11. Un uomo ed un paziente consapevole dei fondamenti etici di una medicina sempre più incisiva sulla durata e sulla qualità della vita, ma un malato che dovrà essere informato anche dei limiti della medicina stessa, oltre che dei diritti della sua persona. Il medico deve comprendere che, senza un approccio anche umanistico alla sua professione, l’applicazione della moderna scienza medica rimane sub-ottimale, se non addirittura dannosa. Questo perché nessuno è in grado di controllare la rapidità degli sviluppi della tecnica in senso unicamente positivo senza una consapevolezza acquisita, attraverso un processo di maturazione culturale, che tenga conto dei vari fattori biologici, psicologici, sociali, tutti profondamente umani ed interconnessi tra di loro, che sono in gioco nel rapporto tra medico e paziente. Diventa allora fondamentale una revisione della preparazione culturale dei medici e di tutti gli operatori della salute. Una riflessione questa che presenta un lungo percorso da compiere e che appare appena accennato.
Figure e tabelle
Informativo | Interpretativo | Deliberativo | Paternalistico | |
---|---|---|---|---|
Valori e convinzioni del paziente | Definiti, fissi e ben conosciuti dal paziente | Conflittuali, che richiedono di essere chiariti | Aperti alle variazioni in funzione di una discussione approfondita | Oggettivi e condivisi sia dal medico, sia dal paziente |
Compiti del medico | Fornire le informazioni rilevanti e attuare gli interventi scelti dai pazienti | Comprendere le posizioni del paziente e informarlo e poi attuare gli interventi scelti | Chiarire al paziente le possibili opzioni, informarlo adeguatamente e attuare gli interventi scelti con il paziente | Promuovere il benessere del paziente, a prescindere dalle sue preferenze |
Concetto di autonomia del paziente | Scelta e controllo delle cure mediche | Comprensione di sé rispetto al valore delle cure mediche | Consapevolezza etica di sé rispetto alle opzioni di cura | Consenso rispetto ai dati oggettivi |
Concetto del ruolo del medico | Tecnico esperto e competente | Consulente e consigliere | Amico o insegnante | Tutore |
Riferimenti bibliografici
- Abbagnano N. Storia della Filosofia. UTET: Torino; 1966.
- Lain Entralgo P. Il medico ed il paziente. Il Saggiatore: Milano; 1969.
- Aristotele Opere. Laterza: Roma-Bari; 1973.
- Crisciani C. La medicina nel Medioevo. Roma; 1993.
- Firpo L. Medicina medievale. UTET: Torino; 1983.
- Lentini L. Il Paradigma del Sapere. Conoscenza e teoria della conoscenza nella epistemologia contemporanea. FrancoAngeli: Milano; 1990.
- Liberati A. La medicina delle prove di efficacia: potenzialità e limiti della EBM. Il Pensiero Scientifico Editore: Roma; 1997.
- Parsons T. Il sistema sociale. Ed. di Comunità: Torino; 1995.
- Parsons T. La struttura dell’azione sociale. Il Mulino: Bologna; 1987.
- Perozziello FE. Storia del Pensiero Medico. IV Volume, Dalla Psicoanalisi al Codice Genetico. Le risposte senza domande. Mattioli 1885: Fidenza (PR); 2010.
- Perozziello FE. Sulla condizione umana. Riflessioni mediche e antropologiche. Mattioli 1885: Fidenza (PR); 2013.
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