L’Etica Medica - Storia, evoluzione e futuro - Parte 2
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Abbiamo visto come l’ideologia nazista poggiasse buona parte delle proprie teorie deliranti su di una base pseudo-scientifica, su di una forma di darwinismo sociale più estremo di quello anglosassone. Secondo questa visione ideologica, l’uomo nazista poteva e doveva intervenire in modo diretto sulla natura, assumendo il controllo della vita e della morte e manipolando la nascita e l’esistenza degli individui per il bene della razza ariana, destinata a dominare il mondo. Per il nazionalsocialismo il destinatario ed il custode dei valori più forti di una nazione era il popolo stesso, connotato dal suo relativo Blut, il sangue originario. Il modello di vita sociale cui conformarsi era la Volksgemeinschaft, la Comunità del popolo, tenuta insieme per prima cosa dall’omogeneità della razza e dal cameratismo militare e paramilitare, quasi si trattasse di una nuova Sparta su di una scala molto più grande, destinata ad asservire il mondo. La stabilità e la purezza di questo popolo ariano doveva essere raggiunta eliminando la componente ebraica, spesso ulteriormente “degradata” dall’adesione al marxismo degli ebrei.
Il filosofo Karl Marx (1818-1883) era stato infatti di origini ebraiche e suo nonno Mordechai Halevi Marx era stato rabbino di Trier (Treviri), la città tedesca che aveva visto i natali di Marx. Anche il Boden, il Suolo della patria, costituiva una parte integrante dell’identità e delle caratteristiche del popolo. Un popolo tedesco che aveva bisogno di spazio, di nuovi territori vitali o Lebensraum, per essere pienamente indipendente e prosperare. Le grandi pianure dell’Est europeo, ricche di grano e di risorse naturali, apparivano come il luogo di conquista ideale. Questo era stato nel passato il credo dei Cavalieri Teutonici, che un tempo avevano cercato di imporre la loro supremazia sugli Slavi partendo dalle fortezze inespugnabili edificate dall’Ordine teutonico nella Prussia Orientale, attraverso crociate sanguinose con cui avevano terrorizzato le popolazioni dell’Est. Dopo l’occupazione delle pianure bielorusse ed ucraine, grazie alla guerra ed all’Operazione Barbarossa dell’estate del 1941, gli slavi sopravvissuti, popoli di condizione inferiore secondo la folle ideologia nazista, sarebbero stati impiegati come schiavi nella coltivazione della terra in favore dei vincitori ariani. Per gli ebrei invece e per tutte gli altri esseri umani “ritenuti etnicamente e socialmente degeneri”, come zingari, omosessuali e via dicendo, non ci sarebbe stato scampo. La loro eliminazione fisica avrebbe rivestito le caratteristiche di una vera e propria operazione chirurgica, una terapia medica destinata ad eliminare un male, un’infezione che minava la salute del corpo sociale ariano e germanico, chiamato a più elevati destini ed al dominio del mondo 1.
La propaganda e l’indottrinamento costante delle masse erano parte attiva del costituirsi dell’adesione popolare a tale progetto aberrante. Ogni cittadino dello stato tedesco doveva avere la sensazione di stare adempiendo ad un preciso compito, doveva sentire il proprio ruolo come facente parte di uno schema più ampio di cose e di intenti, il cui semplice farvi parte costituiva una ricompensa sufficiente e gratificante. Si trattava di un modello che abbiamo visto ancora recentemente in opera nelle guerre che si sono succedute alla disgregazione della ex-Jugoslavia. Stragi in cui forse non a caso uno dei principali fautori dei terribili massacri etnici avvenuti in Bosnia Erzegovina sarebbe stato un medico, lo psichiatra serbo-bosniaco Radovan Karadžić.
Il sistema di selezione che aveva così ben funzionato nella sterilizzazione coatta venne perfezionato e messo a punto attraverso il Programma T4 di eutanasia dei malati di mente incurabili e dei malati non autosufficienti, ispirato, come abbiamo visto, dallo stesso Adolf Hitler. La sigla T4 riporta all’indirizzo Tiergartenstrasse n. 4, nel quartiere di Tiergarten a Berlino, dove era situato il comando della Gemeinnützige Stiftung für Heil und Anstaltspflege, l’ente preposto alla salute pubblica ed alle cure ospedaliere. Sviluppato operativamente attraverso l’apporto di Leonardo Conti (1900-1945), un medico di origini svizzere e generale delle SS, capo dell’Associazione dei Medici Nazisti e dall’onnipresente Karl Brandt, colonnello delle SS e medico di fiducia di Hitler, il Programma T4 comprendeva una selezione su scala nazionale in cui i medici dei vari luoghi di cura, manicomi e cronicari per lo più, dovevano segnalare alle autorità centrali le caratteristiche di autosufficienza e la gravità delle malattie presentate dai loro assistiti.
Vennero quindi predisposte alcune case di cura, dei centri di raccolta in cui questi poveretti andavano incontro ad una valutazione medica collegiale, con la compilazione di moduli appositamente predisposti che attestassero un’inabilità al lavoro ed alla vita sociale. Si procedeva infine alla loro uccisione, attraverso la somministrazione di farmaci letali, di solito barbiturici. In seguito, per velocizzare il processo e renderlo maggiormente impersonale, eliminando il più possibile il contatto umano tra la vittima ed il carnefice, venne usato un gas velenoso come il monossido di carbonio. I cadaveri venivano cremati nel finto nosocomio dove era avvenuta la soppressione ed i familiari ricevevano falsi certificati medici in cui li si informava della morte del loro congiunto, verificatasi per cause naturali 1.
Con questo sistema vennero uccisi migliaia di bambini e di adulti, forse circa 70.000 individui, anche se questo numero è probabilmente sottostimato e la sua reale entità resterà sconosciuta. Una delle caratteristiche principali di questa aberrante procedura era costituita dalla sua estrema burocratizzazione, da un elenco minuzioso di operazioni e valutazioni pseudo sanitarie da compiere, con il coinvolgimento di numerose figure di sanitari ed esperti, il che permetteva una spersonalizzazione della responsabilità attraverso un minore coinvolgimento emotivo degli operatori. Le stesse strutture destinate alle uccisioni erano denominate eufemisticamente Case di cura e assistenza della Comunità di Lavoro del Reich, il che fornisce anche un altro elemento di informazione ideologica sul progetto: “chi non poteva essere produttivo, doveva essere eliminato”. Si richiedeva infatti ai medici di compilare questionari che fornissero un’idea precisa della capacità lavorativa dei pazienti e che permettessero, in modo apparentemente distaccato ed imparziale, quasi fosse una modalità scientifica, di stabilire chi avesse il diritto di continuare a vivere e chi andasse invece eliminato perché considerato di peso per la società. Un’altra peculiarità del Programma T4, come era stato previsto dalla direttiva emanata da Viktor Brack (1904-1948), che con il grado di SS Standartenführer (colonnello) era l’ufficiale di collegamento tra la cancelleria privata di Hitler a Berlino ed il comando generale delle SS, consisteva nel fatto che “la siringa potesse essere usata solo dal medico” 1.
Questa disposizione affermava che la morte potesse essere decisa solo dai medici e che questa modalità aveva valore anche per la compilazione dei falsi certificati di morte. Brack, che aveva iniziato la propria carriera come autista di Heinrich Himmler (1900-1945), il capo o Reichsführer del corpo delle SS, era un autentico criminale. Figlio di un medico, fu l’ideatore organizzativo di buona parte del programma di sterminio e di sterilizzazione di massa, attraverso le irradiazioni delle donne ebree internate nei campi di concentramento. Sostenne anche la necessità dello sfruttamento fino alla consunzione degli internati nei lager, adibendoli a lavori utili alla macchina bellica tedesca prima della loro uccisione. Responsabile medico del progetto di eutanasia dei malati di mente fu invece il neurologo e psichiatra Werner Heyde (1902-1964), dell’università di Würzburg, che sopravvisse alla guerra ed esercitò in seguito la sua professione per anni nella Germania del Nord. L’esperienza accumulata nel progetto criminale dell’eutanasia di stato fu la base per il successivo passo, quello dello sterminio di massa degli Ebrei nei lager appositamente costruiti 1 2.
Come si era arrivati a questi comportamenti aberranti in campo medico? Lo psichiatra americano Robert Lyfton che ha studiato con accuratezza la medicina nel periodo nazista, scrivendo poi un lungo saggio sull’argomento, ha ipotizzato due possibili meccanismi che avrebbero reso molti sanitari del Terzo reich capaci di compiere simili crimini. Una prima spiegazione riguarderebbe un eccesso di distacco affettivo nei confronti dei propri pazienti, compensato dall’adesione ai dettami di un super-io collettivo, evocato attraverso la fedeltà a falsi metavalori, quali la supremazia razziale, la fedeltà assoluta alla patria ed alle autorità, l’obbedienza ad ordini superiori indiscutibili e via elencando. Una seconda interpretazione proposta da Lyfton riguarderebbe una forma articolata di baratto faustiano, vale a dire la possibilità di scegliere di commettere un crimine in cambio del raggiungimento di una possibile ed importante conquista scientifica, che avrebbe dovuto poi giustificare il delitto commesso. È ovvio che entrambe queste due pseudo giustificazioni non sono accettabili e forse non risultano nemmeno completamente esaustive. Permettono tuttavia di comprendere qualcosa di più complesso, che descrive il retroterra ideologico che aleggia dietro a simili crimini 1 3.
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, da più parti si avvertì il bisogno di costruire un sistema di valori di riferimento che impedisse il ripetersi di tali crimini. La prima conseguenza fu costituita dall’emanazione del così detto Codice di Norimberga. Questo consisteva in un insieme di principi normativi enunciati nella sentenza del tribunale militare americano che il 19 agosto 1947 condannò ventitré medici nazisti, sette dei quali a morte, per gli esperimenti condotti nei campi di concentramento. Tali principi, esposti in modo articolato, vennero considerati essenziali per la conduzione delle future sperimentazioni mediche. I contenuti furono elaborati da due medici che rivestirono il ruolo di consulenti del tribunale, i dottori Andrew C. Ivy e Leo Alexander. Le loro conclusioni furono proposte in sei punti da Ivy il primo agosto del 1946 all’International Scientific Commission on Medical War Crimes. Il documento tracciò una separazione netta tra la sperimentazione medica lecita e quella illegale. Per essere considerata eticamente corretta, il soggetto sottoposto alla sperimentazione avrebbe dovuto fornire volontariamente il proprio consenso, essere stato informato sul fine della sperimentazione stessa, sulla durata e sui limiti che avrebbe potuto avere la nuova terapia ed infine sulle possibili conseguenze a cui avrebbe potuto andare incontro per essersi sottoposto alla particolare metodica 4.
I nazisti non erano stati purtroppo i soli a promuovere delle sperimentazioni mediche aberranti. Solo nel 1972 verrà diffusa la notizia, in verità ancora poco conosciuta, del così detto Tuskegee studium sulla sifilide, condotto a partire dal 1932 a Macon, negli U.S.A. e nello stato dell’Alabama. In questo assurdo studio, vennero coinvolte quasi quattrocento persone di colore, malati di sifilide, insieme ad un gruppo di circa duecento individui di controllo, che vennero seguiti per quarant’anni senza alcun intervento terapeutico e senza alcun consenso informato! Ebbero così modo di percorrere tutti gli stadi della malattia da treponema e di infettare i loro conviventi con cui avevano avuto rapporti sessuali e che si ammalarono in seguito a questo comportamento. Non venne somministrata alcuna terapia antibiotica a questi malati, anche dopo l’entrata in commercio della penicillina. Lo studio terminerà solo nel 1972 per una fuga di notizie ed il relativo scandalo, mentre il governo statunitense sta ancora pagando i danni agli eredi dei superstiti 5.
Al Codice di Norimberga seguì nel 1948 la Dichiarazione di Ginevra dell’Associazione Medica Mondiale. Questo documento consistette in una revisione critica del Giuramento di Ippocrate, che impegnava il medico a rendersi indipendente nel proprio giudizio clinico e terapeutico al fine di salvaguardare i dettami del giuramento e della propria coscienza. Tuttavia occorre sottolineare come in questo documento e nelle sue versioni più moderne scompaia la figura del maestro, che tanto rilievo aveva avuto invece nel giuramento ippocratico originario. Questa osservazione ci impone una riflessione sui pericoli di una eccessiva neutralità ideologica degli insegnamenti medici, specie nel loro versante etico. Abbiamo visto infatti come il ridurre il peso della responsabilità nelle scelte individuali fosse stato uno dei metodi utilizzati dai nazisti per spersonalizzare gli eccidi e le pratiche di eutanasia. In questo senso una valutazione di fondo andrebbe fatta anche sull’aderenza incondizionata alle linee guida, oggi tanto in auge ed alle possibili conseguenze della mancanza di libertà o difficoltà nello scegliere percorsi terapeutici alternativi in base magari ad un corretto e diverso giudizio clinico. La figura del maestro costituisce un riferimento autorevole ad impedire la deriva di spersonalizzazione e la mancanza di assunzione di responsabilità nelle scelte che oggi caratterizzano l’ambito formativo dei giovani medici.
La Dichiarazione di Helsinki del 1964 (e le sue successive revisioni fino ai giorni nostri) costituisce il terzo documento scaturito cronologicamente dopo il processo ai medici nazisti. Venne anche questa elaborata dalla World Medical Association ad Helsinki, nel giugno del 1964. È stata sottoposta a sei successive revisioni (1975; 1983; 1989; 1996; 2000; 2008). Non impegnò giuridicamente in modo stringente gli stati aderenti, che non l’hanno sottoscritta in modo omogeneo nelle sue versioni successive. I punti salienti di questo documento vertono sui seguenti rilievi programmatici:
- il consenso informato;
- la necessità della presenza di un tutore nel caso la persona oggetto delle cure mediche non sia cosciente o presenti altre difficoltà cognitive relative all’età, ad un possibile ritardo mentale, ecc.;
- la necessità di protocolli di ricerca chiari, comprensibili, disegnati con rigore ed esaminati preventivamente dai comitati etici;
- la distinzione tra una ricerca terapeutica ed una non strettamente finalizzata all’introduzione di nuove modalità curative;
- la necessità di rispettare gli stessi standard qualitativi e di rispetto della dignità umana in tutto il mondo, sia in quello occidentale più ricco, che nei paesi più poveri.
Occorre a questo punto ricordare come la medicina nasca insieme alla consapevolezza della malattia e della morte. Chi pratica la medicina diviene un intermediario tra le speranze di guarigione e la concretezza disperante del dolore e della morte. Il medico ed il paziente vivono entrambi una condizione umana speciale, quella del limite, vale a dire la familiarietà con situazioni estreme, quali le circostanze della nascita e della morte degli individui. Appare pertanto indispensabile fornire ai sanitari degli strumenti di comprensione filosofica ed etica dei loro comportamenti che li sorreggano nella difficoltà e nei dubbi di alcune scelte.
Ippocrate di Kos (460-370 a. C. circa) nacque in un’isola del Dodecanneso prospiciente la costa dell’Asia Minore. Dalla sommità della collina dell’Asklepeion, il recinto sacro al dio della medicina Asklepio, figlio di Apollo, non è difficile scorgere ancora oggi l’antica città greca di Alicarnasso, divenuta la turca Bodrum. Di Alicarnasso era originario anche Erodoto (484-425 a. C.), il primo storico nel senso moderno del termine, quasi contemporaneo di Ippocrate. I presupposti dell’indagine storiografica elaborata da Erodoto sono particolarmente simili a quelli presenti nelle fondamenta del ragionamento clinico. Sono infatti costituiti da tre componenti principali:
- ὄψις (opsis): la vista indagatrice dello storico (e del medico);
- ἀκοή (akoé): l’ascolto delle testimonianze dello storico (e dell’anamnesi da parte del medico);
- γνώμη (gnome): il criterio di interpretazione dei fatti (e quindi il ragionamento clinico diagnostico).
Dal momento che l’abbiamo evocato, riportiamo di seguito, in una traduzione moderna, il Giuramento di Ippocrate: “Io giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per gli Dei tutti e le Dee, che prendo a testimoni, che secondo le mie forze ed il mio giudizio osserverò questo giuramento e questi precetti: rispettare colui che mi ha insegnato quest’arte allo stesso modo dei miei genitori; dividere con lui il sostentamento e dargli ciò di cui abbia bisogno; considerare i suoi discendenti come miei fratelli, insegnare loro l’arte, se vogliono apprenderla, senza ricompensa o condizioni; rendere partecipi delle istruzioni, dell’insegnamento e dell’intera disciplina i miei figli e quelli del mio maestro ed in seguito i discepoli che hanno prestato giuramento secondo il costume medico e nessun altro. Secondo le mie forze ed il mio giudizio prescriverò la dieta per giovamento dei malati e mi asterrò da ogni danno e violenza. Anche se richiesto, non darò ad alcuno farmaco mortale, né darò un consiglio analogo: allo stesso modo non prescriverò alla donna un rimedio abortivo. Puramente e santamente custodirò la vita e l’arte mia; non farò l’operazione della pietra, ma la lascerò agli specialisti di questa pratica. In qualunque casa io entri, vi andrò per giovamento del malato, astenendomi da ogni azione volontariamente dannosa e da contatti impuri con donne e uomini, con liberi e servi. Qualunque cosa io possa sentire o vedere durante la cura, che non sia da divulgare, ovvero anche fuori della cura nei rapporti della vita, la tacerò, come cosa che non è permesso dire. Se osserverò questo giuramento e non lo violerò, mi sia concessa per sempre vita ed arte in buona fama presso tutti gli uomini; il contrario, ove io trasgredisca e spergiuri”. Traduzione di Raffaele Cantarella (modificata)
Sempre nell’antica Grecia e pochi decenni dopo Ippocrate, dal grande filosofo Aristotele (384-322 a.C.) l‘Etica era considerata una scienza eminentemente pratica che doveva risultare utile all’uomo per vivere in armonia con i propri simili e con sé stesso. Il testo di riferimento dell’etica aristotelica è l‘Etica Nicomachea, un trattato filosofico diviso in dieci libri. Fu il figlio di Aristotele, Nicomaco, a raccogliere ed a divulgare le lezioni tenute dal padre su questo argomento. L’opera fu pubblicata per la prima volta, insieme al corpus delle altre opere aristoteliche, dal filologo Andronico di Rodi intorno al 50-60 a.C. I primi due libri dell’Etica sono dedicati a definire l’oggetto della ricerca morale, che è il bene dell’uomo, inteso non astrattamente, ma come il massimo dei beni che si possano acquisire e realizzare attraverso l’azione 6.
Leggiamone un passo particolarmente significativo a proposito della medicina, ricordandoci che anche il padre di Aristotele, Nicone, era un medico: 9. [1112b] “ … Ancora, nel campo di quelle delle scienze che sono rigorose e sufficienti in se stesse non vi è possibilità di scelta: ad esempio sull’ortografia (infatti non abbiamo dubbi su come si debba scrivere). Invece quelle cose che sorgono per opera nostra e non sempre nello stesso modo, intorno a questi argomenti deliberiamo: ad esempio sulle questioni di medicina e quelle del commercio, nel campo della scienza del governare la nave piuttosto che in quella della ginnastica, quanto meno si cerca di procedere con rigore e così di seguito anche nel campo di queste discipline, lavorando sulle opinioni più che sulle scienze. Intorno a queste infatti abbiamo maggiormente dei dubbi …” da Aristotele, Etica Nicomachea, III libro
Lungo lo scorrere dei secoli del Medioevo prevalse in campo medico il Principio di beneficienza. Questo garantiva il bene del malato secondo il Codice ippocratico e la sua interpretazione cristiana, come quella formulata da San Tommaso d’Aquino (1221-1274). La visione medica di Ippocrate divenne così quella fatta propria dalla chiesa cattolica. Nel decidere il medico utilizzava la potestà medica. Questa rispondeva a criteri di ragionevolezza e tuttavia era anch’essa sottoposta ad una continua evoluzione. Oggi ad esempio è impensabile che si taccia completamente al paziente la gravità del male che lo ha colpito ed il rischio che un’operazione chirurgica oppure una terapia possano comportare. In un tempo invece, anche relativamente recente, il non parlare degli effetti possibili di una terapia o delle conseguenze di una malattia era un costume tollerato ed a volte richiesto espressamente dai congiunti per non spaventare il malato.
L’epidemia di peste bubbonica e polmonare del 1347-1351 rappresentò un fatto eccezionale che cambiò molte cose nella modalità di affrontare le malattie. Il versante etico della medicina non ne fu immune. Si calcola che la peste, la Morte nera, come venne chiamata, abbia causato il decesso di oltre il 30% della popolazione europea dell’epoca, pari a circa 25-30 milioni di esseri umani. A seguito di questo flagello la medicina ufficiale dovette compiere un faticoso ed incerto processo di adattamento alla nuova realtà. La peste uccise in modo imparziale buona parte del personale di assistenza ai malati, medici o religiosi che fossero. La medicina di estrazione ippocratica e galenica, insegnata nelle scholae e nelle università medievali si dimostrò totalmente inefficace davanti alla peste. Mancava ogni possibile e comprensibile nesso causale tra le manifestazioni cliniche e l’origine delle stesse. Perfino Guy de Chauliac (1280-1368), il più famoso ed autorevole medico del tempo, rinchiuso nel palazzo-fortezza di Avignone dove esercitava il proprio incarico di medico personale del papa Clemente VI, si lasciò andare a questa triste confessione: “… per paura del disonore non osai fuggire. Tormentato continuamente dalla paura, cercai di proteggermi alla meno peggio …”.
Si ebbero molteplici rifiuti di assistere i malati, perché, anche se non si conoscevano le cause dell’epidemia, era facilmente constatabile come la vicinanza agli appestati fosse un metodo quasi sicuro di ammalarsi. Costretta dall’epidemia, la medicina accademica dovette ricercare delle nuove metodologie di ricerca e di insegnamento originali ed innovative rispetto a quanto riportato nei testi del passato. Il concetto stesso di malattia cambiò lentamente i propri caratteri descrittivi. Mentre per Thomas Sydenham (1624-1689) le varie malattie non erano fenomeni che interessassero l’una o l’altra parte del corpo, ma eventi che coinvolgevano l’intero organismo e la malattia era ancora considerata come un fenomeno complessivo, secondo una visione olistica della persona, per Giovan Battista Morgagni (1682-1771) invece l’evento morboso consisteva in un’alterazione locale, che modificava la struttura anatomica di uno o di più organi. Le diverse patologie risultarono progressivamente non più riconducibili alla semplice descrizione di quadri sintomatici, ma fondate sulla conoscenza accurata delle lesioni anatomiche che le caratterizzavano. Si introdusse una visione speculativa legata ad un meccanicismo locale dell’organo, che si era guastato e che poteva, con il crescere delle conoscenze, essere riparato. Lentamente, ci si accorse che le malattie erano processi e non oggetti direttamente osservabili ed identificabili come una pianta oppure un animale. Spesso molti segni clinici erano presenti in malattie che apparivano estremamente diverse tra di loro. I sintomi cominciarono a non essere più considerati come una malattia, ma l’evento morboso fu valutato lentamente come un’unione di vari sintomi e segni, che agivano simultaneamente o che si succedevano ed erano tra di loro congiunti.
Allo stesso tempo lo stato, inteso come istituzione ordinatrice e regolatrice in senso moderno, iniziò a porsi come mediatore ed utilizzatore del corpo dei propri cittadini. Il ruolo predominante che la tecnologia medica ha assunto nella società contemporanea ha avuto e possiede un’influenza profonda sui valori condivisi, sulla differenza tra la vita e la morte, sull’evoluzione culturale cui è stato assoggettato il nostro corpo. La tecnologia biologica ha agito sul ruolo dello stato come tramite nell’utilizzo del corpo. Una concezione che si ritrova in origine nel pensiero del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679). Nella visione di Hobbes lo Stato diventava un Leviatano, un essere mostruoso e quasi onnipotente, ispirato al racconto della Bibbia. Il corpo del leviatano-stato risultava nel libro di Hobbes essere costituito dall’insieme di quelli dei singoli cittadini. Con l’avvento dell’Età Moderna, le persone demandarono infatti all’autorità dello stato una parte delle proprie libertà individuali in cambio della sicurezza sociale e della pace in cui esercitare le attività produttive.
Contemporaneamente alla scienza moderna, nacque nel XVII secolo il Diritto naturale, una disciplina che presupponeva l’esistenza nell’uomo di principi morali eterni ed affidabili cui fare riferimento per sanare eventuali controversie sia tra le persone che tra le nazioni. Padre dei fondamenti del moderno Diritto naturale è ritenuto il giurista olandese Hugo Grotius (1583-1645), celebre per la sua formulazione: “Etsi Deus non daretur”. Con questo detto latino si indica la possibilità conferita alle persone di agire comunque saggiamente anche se Dio non fosse stato presente nella realtà umana, oppure avesse deciso di astenersi dall’intervenire. Nella fase laica dell’assistenza sanitaria, che esordì con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, venne progressivamente implementato il compito protettivo delle istituzioni ed infine, attraverso il Codice Napoleonico del 1804, lo stato iniziò a divenire il garante dell’erogazione della salute ai cittadini.
Nel frattempo il modello di conoscenza della medicina era diventato quello meccanicistico, basato sulla visione dell’essere umano come una macchina dalle funzioni ed azioni misurabili. Un libro del 1748 del medico francese Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751), dal titolo inquietante de L’uomo macchina, divenne un successo editoriale del secolo XVIII, ma venne perseguitato dall’Inquisizione, tanto che dover essere stampato nell’Olanda calvinista ed essere messo all’indice e bruciato nell’Europa cattolica. Progressivamente, grazie all’evoluzione delle conoscenze mediche ed ai loro successi, il rapporto tra la dimensione antropologica e culturale della medicina e quella tecnologica si alterò nel proprio equilibrio verso la metà del XIX secolo. Questa situazione si è verificata nell’Età Moderna anche per altre discipline scientifiche, tuttavia la medicina pare avere avuto una minore consapevolezza di tale processo. Secondo le innovative conclusioni di Louis Pasteur (1822-1895) il germe che provocava le alterazioni e le modificazioni delle funzioni dell’organismo costituiva la causa (diretta o indiretta) dei sintomi presentati dal malato e permetteva di comprendere dei fenomeni molto diversi fra di loro e variabili da un paziente ad un altro. Nasceva in tal modo il paradigma investigativo della medicina moderna, che avrebbe rivoluzionato la scienza medica sperimentale della seconda metà del XIX secolo: ad una causa doveva conseguire una malattia ad essa legata 7.
La medicina adottò senza autocritiche il metodo sperimentale e statistico, abbandonando ogni riflessione epistemologica che permettesse ai ricercatori di tener conto della relatività delle loro scoperte e dell’impossibilità di raggiungere nello studio del corpo umano e di tutte le altre scienze ad esso collegate delle verità scientifiche assolute. Si separò pertanto dalla più modesta e consapevole visione ideologica e programmatica delle altre discipline scientifiche, come la fisica, la matematica, la chimica, che si andavano invece in quegli stessi anni interrogando, nelle loro ricerche, sull’impossibilità di ottenere dei risultati assolutamente esatti ed indiscutibilmente veri. Avvenne pertanto, al passaggio cruciale tra il XIX ed il XX secolo, una vera e propria separazione epistemologica della medicina dalle altre scienze della natura 7.
Riferimenti bibliografici
- Lifton RJ. I medici nazisti. La psicologia del genocidio. Milano; 2003.
- Perozziello FE. Storia del Pensiero Medico. IV volume. Fidenza (Parma); 2010.
- Arendt H. Le origini del totalitarismo. Milano; 1967.
- Corbellini G. Codice di Norimberga. Enciclopedia Italiana Treccani. 2008.
- Publisher Full Text
- Severino E. La filosofia antica e medioevale. Milano; 2004.
- Perozziello FE. Storia del Pensiero Medico. III volume. Fidenza (Parma); 2010.
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