L’Etica Medica - Storia, evoluzione e futuro - Parte 3
Abstract
Termina con questa terza parte il saggio sull’etica medica, dalle origini alla sua evoluzione. Si tratta di un argomento complesso, che non si vuole certo pretendere di aver esaurito. Il futuro non sempre è prevedibile ed in questo campo le sfide che attendono la medicina sono, in molti casi, appena accennate. La figura carismatica di Albert Schweitzer rimane ad indicarci la strada verso un umanesimo non solo di maniera, ma di indispensabile concretezza.
Articolo
Un esempio significativo della separazione epistemologica che ha caratterizzato lo sviluppo scientifico della medicina negli ultimi 150 anni è costituito dal suo ignorare il dibattito tecnico filosofico che invece si è sviluppato nella prima parte del XX secolo. Pensiamo soltanto al Circolo di Vienna ed al suo apporto nel campo della filosofia della scienza, come pure al matematico Kurt Gödel ed ai suoi teoremi sull’indimostrabilità assoluta di una formula assiomatica. Suggeriamo in proposito di prendere in considerazione la così detta Tesi di Duhem-Quine, comunemente ignorata in campo medico, salvo poi stupirsi della non univoca risposta degli organismi ad esami e terapie. Affermava tale tesi, derivata dai lavori di un fisico teorico francese, Pierre Duhem (1861-1916) e da quelli di un filosofo e logico statunitense, Willard Van Orman Quine (1908-2000):
L’evoluzione tecnologica della medicina non si è accompagnata ad una riflessione parallela di tipo etico adeguata. Le tecnologie moderne permettono di prolungare la vita, anche in una condizione di compromissione dello stato di coscienza dell’individuo e spesso il personale sanitario si trova a dover prendere delle decisioni molto importanti per i loro riflessi futuri a riguardo del paziente che sta assistendo. Da alcune di queste considerazioni prese avvio l’elaborazione della moderna bioetica. Il termine Bioetica venne coniato dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter II (1911-2001) agli inizi degli anni settanta del secolo scorso. Potter espose le proprie riflessioni sui rischi che le possibilità consentite dal progresso tecnologico applicato in campo genetico avrebbero potuto provocare nei confronti dell’esistenza umana e dell’equilibrio complessivo dell’ecosistema terrestre 1 2.
Si possono individuare tre modalità di articolazione della bioetica moderna. Una bioetica generale, che si occupa dei fondamenti speculativi della disciplina facendo ricorso a più scienze, come la medicina e la filosofia ed utilizzandole a sostegno di alcune tesi programmatiche di ordine generale. Una bioetica specialistica, che analizza i temi più importanti della vita delle persone, come la nascita, la morte e le modalità dell’assistenza nei confronti di alcune categorie speciali di pazienti, quali ad esempio il malato psichiatrico, quello oncologico, quello respiratorio e via elencando. Possiamo infine segnalare una bioetica clinica, che prende in esame alcuni casi particolari che rivestono delle implicazioni etiche importanti. Nelle ultime due tipologie di questa classificazione la riflessione bioetica comporta un intervento diretto nei confronti del paziente, in cui il medico dovrebbe risultare protagonista. Ad una bioetica di tipo laico si è poi contrapposta, specie nel nostro paese e per le note ragioni storiche e politiche, quella religiosa e cattolica in particolare, che si è confrontata, a volte in modo acceso, con la visione laica degli argomenti. Tuttavia le distanze non sono sempre così nette e vi sono stati anche tentativi di conciliare le due posizioni:
Una possibile chiave di lettura delle modificazioni della visione etica della medicina nel corso del tempo è quella che ci è stata fornita dagli studi e dai lavori di Michel Foucault (1926-1984). Questo filosofo francese proveniva da una famiglia di consolidate tradizioni mediche. Il padre, il nonno ed il bisnonno avevano esercitato tale professione. Anche il fratello di Michel era medico, ruolo che il filosofo rifiuterà, laureandosi in psicologia e filosofia. In molti suoi libri Foucault ha cercato di individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia si era costituita come un oggetto di studio scientifico, dando luogo ad una medicina clinica strettamente legata alla costruzione di alcuni luoghi chiusi, spesso di tipo repressivo e di segregazione, come l’ospedale e il manicomio. Situazioni in cui si era venuto ad instaurare un rapporto di dominio tra il curante ed il paziente. Questa struttura di potere non nasceva dal nulla, ma dal contesto storico, scientifico ed ideologico da cui era stata alimentata.
Nel suo saggio del 1963, dal titolo di Nascita della Clinica: un’archeologia dello sguardo medico (Naissance de la clinique: une archéologie du regard medical), Foucault analizzò il passaggio da un modello conoscitivo medico ad un altro nel corso della storia. Questo passaggio non era stato un processo governato da una logica di perfezionamento progressivo. Si era trattato invece di un mutamento attraverso delle discontinuità non completamente spiegabile in modo razionale. Comprendere gli eventi biologici e la valutazione delle malattie attraverso la visione epistemica caratteristica di ogni epoca umana avrebbe portato alla luce la concezione scientifica di quel periodo storico e di come questa avesse agito nei confronti dei malati. Ad opera dello studioso francese si attuò una modalità di indagine multidisciplinare della medicina e dei suoi rapporti con il potere. Si decifrarono le modificazioni etiche che queste relazioni avrebbero finito inevitabilmente con il generare. Nel saggio Storia della follia in età classica (Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique) del 1961, Foucault aveva cercato di individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia si era articolata come oggetto di studio scientifico, dando luogo ad una medicina clinica strettamente legata alla costruzione di luoghi ben delimitati ed addetti alla cura dei malati, oppure a qualcosa che somigliasse ad una vera e propria emarginazione. Una separazione ospedaliera, mutuata dal concetto di carcere rieducativo di ideazione illuministica ed immaginato dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832), che permettesse la guarigione attraverso la segregazione e la libera applicazione di tecniche rieducative e di sanificazione. I dispositivi di gestione del potere statale e locale, come quello del medico nei confronti del malato, producevano delle continue selezioni sociali. Impedivano il libero proliferare dei discorsi ed erano alla base di una società disciplinare, che aveva trovato la propria espressione più compiuta nelle istituzioni del carcere, dell’ospedale, dell’esercito, della scuola e infine della fabbrica. Tutti i luoghi in cui venivano sperimentate delle strategie di controllo del corpo, esercitate attraverso regole, esami di accertamento della devianza ed applicazione delle relative sanzioni. Il potere tuttavia non rivestiva solo una funzione negativa, ne possedeva anche una positiva, apprezzabile. Era in grado di produrre nuovi ambiti di verità e differenti saperi, da implementare oppure abbandonare se fossero risultati inadeguati 3 4.
In un’intervista del 1984, rilasciata poco tempo prima di morire a causa di un’infezione da HIV, il filosofo francese definì le relazioni di potere come delle vere proprie relazioni corporee, all’interno delle quali si cercava di controllare l’essenza dell’altro, il suo originale ed assoluto ontologico. Rapporti che potevano modificarsi nel tempo e che erano definibili come delle vere e proprie strategie, condotte attraverso la manipolazione delle libertà individuali. Potevano sfociare in stati di dominio, che si creavano quando un individuo od un gruppo sociale riuscivano a limitare delle relazioni, oppure a renderle immobili ed irreversibili. La concessione di una presunta libertà sessuale era stata per Foucault una vicenda esemplare in proposito, una forma di gratificazione calata dall’alto, strumentale e preordinata, piuttosto che una conquista consapevole delle persone.
I corpi rappresentavano la fisicità della materia. Tuttavia emanavano anche una necessità di aiuto, legata alla loro fragilità. Agivano, soffrivano, erano oltraggiati e si disgregavano, tuttavia il significato del loro vivere si manifestava attraverso le strutture di potere che li governavano e che tracciavano dei confini di libertà relativa entro cui erano obbligati a collocarsi. Lo spazio occupato dal corpo, che l’individuo in buona salute riteneva essere un punto di partenza stabile e sicuro, era invece attraversato da logiche di controllo misconosciute, che indirizzavano e facevano apparire l’essere umano in modo per lui appagante. Progetti di potere che suggerivano ed indirizzavano i desideri, manipolavano la coscienza. Creavano luoghi dove si incontravano le persone e le pratiche disciplinari cui queste erano sottoposte. Ambienti di lavoro, di studio, familiari, dove veniva stabilita un’identità ben precisa da seguire, da cui era poi difficile dissentire. La semplificazione del rapporto tra il corpo e le idee che questo poteva esprimere, eredità del meccanicismo del XVII e XVIII secolo, rendeva l’essere umano facilmente influenzabile nelle proprie aspettative di salute. Da una parte gli faceva credere di essere solo una macchina, cui bastasse cambiare un pezzo oppure utilizzare una terapia perché tutto tornasse come prima, almeno da un punto di vista riguardante l’efficienza fisica, dall’altra lo si rassicurava, in quanto paziente, sull’esito degli interventi, minimizzando gli influssi e le conseguenze sull’integrità fisica e sulla violazione della complessità dell’individuo. Si veniva a creare in tal modo una banalizzazione del problema della malattia, legata apparentemente alla guarigione dell’organo malato e si impediva, attraverso il conformismo della visione scientifica dominante ed una verifica dei risultati attuata secondo una statistica utilizzata in modo manipolatorio, un approccio diverso e più consapevole alla complessità della persona.
Hans Jonas (1903-1993) è stato un filosofo tedesco di origine ebraica, allievo di importanti pensatori come Edmund Husserl e Martin Heidegger, oltre che amico della filosofa Hannah Arendt. Secondo Jonas, la nozione di organismo poteva superare l’antica divisione cartesiana tra anima e corpo. La caratteristica essenziale dell’organismo era rappresentata dalla funzione metabolica, che permetteva un costante rinnovamento della propria realtà organica, governata da equilibri elaborati. Anche Jonas, come Michel Foucault, non credeva che potesse esistere un‘interiorità assoluta separata dal proprio corpo e non correlata con i contesti della cultura, della società e della tradizione. Questo filosofo ha formulato il principio di responsabilità etica nei confronti della natura e si è interessato in modo particolare alle problematiche mediche legate ai trapianti d’organo. Jonas riteneva che la separazione pseudo razionale tra la mente ed il corpo, operata da Renè Descartes (1596-1650), fosse stata il risultato di un artificio metodologico mai provato, adoperato per conseguire una conoscenza quantitativa del reale. Una visione ideologica funzionale alla costruzione di una scienza utilitaristica e riproducibile su larga scala, ma basata su di una convenzione, piuttosto che su di una certezza. Un sapere che si rivelava, se indagato in modo critico, tutt’altro che indipendente. Ne conseguiva una scienza moderna che finiva per svincolarsi dai principi etici in nome di una supposta utilità superiore, oppure confidava in una certa ipocrisia degli scienziati ed in una discreta sopravvalutazione, magari in malafede, della propria utilità economica 5 6.
Scrisse Jonas:
Tuttavia per comprendere meglio le radici più profonde del disagio etico e dello smarrimento progettuale della medicina moderna occorre probabilmente rifarsi ad un’opera pubblicata postuma del grande filosofo Edmund Husserl (1859-1938): La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (Die Krisis der Europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie). Il filosofo scrisse questo suo ultimo saggio, rimasto incompiuto, negli anni tra il 1932 ed il 1937, in cui era stato allontanato dall’insegnamento universitario dal nazismo per le sue origini ebraiche. Il libro uscì postumo solo nel 1954 7.
Scrisse Husserl che la crisi delle scienze occidentali non riguardava la sicurezza della loro metodologia ed il progresso tecnico che scaturiva dalle indagini condotte. La ricchezza dello sviluppo tecnologico coincideva, secondo questo filosofo, con l’oscurità del fine che le varie discipline si erano poste nel loro processo conoscitivo. Era stato ideato un modello di sviluppo delle ricerche puramente fisico nello studio della materia. La molteplicità dei risultati scientifici diveniva allora coincidente con l’oscurità, sempre più accentuata, circa i loro fondamenti ed i loro significati. L’avere accettato come un paradigma un modello di indagine fisica pura della realtà, estrapolata da un contesto di sfida etica e razionale, come era invece stato nella Grecia antica, aveva generato un risultato alla lunga negativo. Si poteva pertanto affermare, secondo Husserl, come “le mere scienze di fatto creassero meri uomini di fatto”. Queste scienze, medicina compresa, provocavano una ricostruzione ideologica ed unicamente pratica dell’umanità europea, che veniva ridotta ad attendersi un fine utile e necessario da ogni scoperta, tralasciando ogni mezzo di perfezionamento etico. Si era passati da un insieme di studiosi e di scienziati capaci di idee portanti sui significati del loro lavoro a persone che subivano le conseguenze di azioni e di direttive altrui. Era nata una scienza, specie in campo medico, in cui si ottenevano delle risposte senza aver formulato delle domande preliminari sul senso dell’insieme e senza che queste domande venissero poste con il necessario e consapevole spessore critico 7 8.
Come trovare allora un terreno comune tra la ricerca medica e le sue finalità etiche? In questi ultimi decenni si ha la sensazione che il quadro di insieme sia stato inquinato dall’assioma legato ad una relativa e proclamata insufficienza delle risorse economiche da destinare ai servizi sanitari delle nazioni più ricche. La preoccupazione di impiegare con oculatezza i mezzi disponibili finanziariamente ha fatto nascere una ricca compagine di revisori di spesa legati alla sanità, senza che peraltro il potere delle grandi multinazionali del farmaco subisse alcun tipo di indirizzo o regolazione. La sanità del ricco Occidente si è avviata pertanto a divenire una fiera delle vanità in cui si promettono a tutti vite cronologicamente quasi illimitate, anche a costo di cronicizzare malattie inguaribili senza poterle eliminare, cosa che poi, da un punto di vista dell’utile commerciale, appare quanto mai promettente. Dove invece non si è investito è stato nella formazione critica dei medici e degli operatori sanitari. La loro preparazione è divenuta sempre più di tipo tecnico professionale, mentre sono state eliminate progressivamente materie ed argomenti che li invogliassero a riflettere sul senso della loro professione, sulla condizione umana e sulle modalità di aiuto alle persone meno fortunate. Paradossalmente si sono moltiplicate le occasioni e le opportunità di formazione manageriale nella sanità, dimenticandosi che la gestione della complessità e del lavoro in questo campo richiedono prima di tutto una formazione etica profonda ed assolutamente non di tipo dilettantistico od occasionale. Senza escludere infine il pericolo posto dall’informatica, con la costruzione di calcolatori sempre più potenti, in grado di sconfiggere il campione del mondo di scacchi e formulare le diagnosi e decidere le terapie magari in modo più preciso ed utile di un medico.
Vorrei ripensare a questo punto alla grande figura del dott. Albert Schweitzer (1875-1965), formatosi come teologo di religione protestante presso l’Università di Strasburgo e grande interprete dell’opera di J. S. Bach per organo. Un uomo che avrebbe potuto vivere circondato dal benessere e dalla stima dei suoi contemporanei e che decise invece, intorno ai trent’anni di età, di rimettersi in gioco in senso radicale. Nel 1911 si laureò in medicina ed acquisì la specialità in malattie tropicali, per poi partire alla volta dell’Africa, nella poverissima ed isolata regione del Gabon, appartenente alla allora denominata Africa Equatoriale francese. Una terra infestata dalla malaria e da ogni altra possibile malattia tropicale. Scrisse Albert Schweitzer:
Nasceva in questo modo l’Ospedale di Lambaréné, cui il medico alsaziano avrebbe dedicato tutto il resto della propria vita. Una vita lunga, circondata dalla stima e dagli onori del mondo, cui Schweitzer era tuttavia estremamente refrattario. Nel 1952 ricevette il Premio Nobel per la Pace, con i proventi del quale fece costruire un intero villaggio per ospitare i malati di lebbra. In questa vita così lunga e piena di valori possiamo tuttavia scegliere un momento centrale e significativo che può guidare ogni medico nel proprio lavoro:
Era un giorno dell’anno 1915, mentre Schweitzer navigava lungo il fiume Ogooué per recarsi a visitare un malato. In quel momento i conti dell’esistenza presero a tornare e la strada da percorrere fu vista più lucidamente nel suo stendersi davanti agli occhi dell’anima. Non occorre essere santi o perfetti in questa ricerca, è sufficiente rispettare la vita di tutti gli esseri viventi e trarre da questa scelta una consolazione morale. La riflessione sui valori portanti dell’etica ha un senso solo se spinge a riflettere su sé stessi. Una modesta, ma insostituibile verità da cui partire per una medicina più umana. Un’arte medica che dovrà riflettere su sé stessa, altrimenti non sarà più tale. Qualcosa di diverso, che chi scrive non desidera e non vuole.
Riferimenti bibliografici
- Potter VR. Bioethics: the science of survival. Perspectives in Biology and Medicine. 1970; 14:127-53.
- Potter VR. Prentice Hall: Englewood Cliffs; 1971.
- Foucault M. Torino; 1998.
- Foucault M. Milano; 1998.
- Jonas H. Torino; 1990.
- Jonas H. Genova; 2005.
- Husserl E. Milano; 2008.
- Perozziello FE. Fidenza (Parma); 2009.
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