Oncologia Toracica
Articolo
Il trattamento integrato del tumore polmonare è ormai da tempo argomento di vivo interesse per gli specialisti coinvolti nella gestione di questa patologia.
Lo studio di Robinson et al. 1 si pone l’obiettivo di analizzare l’impatto delle moderne tecniche radioterapiche post-operatorie sulla sopravvivenza globale (OS), in pazienti affetti da neoplasia polmonare non a piccole cellule stadiati come pN2 dopo chirurgia e sottoposti a successiva chemioterapia adiuvante.
Tutti i pazienti sottoposti, dal 2006 al 2010, a chirurgia radicale (istologicamente pN2) e chemioterapia adiuvante, sono stati identificati dal “National Cancer Data Base” e divisi in base all’esecuzione o meno della radioterapia post-operatoria (PORT, dose totale superiore o uguale a 45 Gy). In totale sono stati selezionati 4483 pazienti (1850 sottoposti a radioterapia post-operatoria; 2633 non sottoposti a radioterapia post-operatoria). È stata analizzata l’influenza delle variabili (relative sia alle caratteristiche del paziente che al tipo di trattamento eseguito) sulla sopravvivenza globale.
Il follow-up mediano è stato di 22 mesi. L’aumento della sopravvivenza globale è risultato essere correlato alla più giovane età del paziente, al trattamento eseguito presso una struttura ad alta specializzazione, al sesso femminile, alla popolazione urbana, al reddito più alto, ad uno score più basso documentato con l’indice di comorbilità di Charlson, alla dimensione più piccola del tumore, alla chemioterapia, alla resezione chirurgica se eseguita almeno con una lobectomia ed alla radioterapia post-operatoria.
L’esecuzione della radioterapia post-operatoria è risultata essere associata ad un aumento della sopravvivenza mediana e della sopravvivenza a 5 anni se confrontata con la non esecuzione della stessa (per la OS mediana, 45,2 vs 40,7 mesi rispettivamente; per la OS a 5 anni, 39,3% [95% CI, dal 35,4% al 43,5%] vs 34,8% [95% CI, dal 31,6% al 38,3%], rispettivamente; p = 0,014).
Per quanto riguarda la diagnostica molecolare il 2015 è stato l’anno in cui l’attenzione sulla biopsia liquida si è molto incrementata. Già nel 2014 l’EMA ha approvato l’impiego della “biopsia liquida” per la valutazione dello stato mutazionale di EGFR su DNA tumorale circolante (ctDNA) estratto da plasma per selezionare al trattamento con gefitinib, erlotinib o afatinib i pazienti affetti da NSCLC, solo nel caso in cui il tessuto tumorale non risulti sufficiente per l’indagine molecolare o non sia affatto disponibile. In questo articolo Karachaliou e Rosell 2 hanno analizzato i maggiori studi clinici sull’argomento. In tale contesto, è importante distinguere le due principali applicazioni dell’analisi dello stato mutazionale di EGFR su ctDNA. Il primo ambito coincide con la possibilità di rilevare le mutazioni prima che il paziente abbia effettuato un trattamento qualora il campione tissutale sia inadeguato per l’indagine molecolare. Poiché la concordanza massima dimostrata durante gli studi clinici tra lo stato mutazionale di EGFR su tessuto e sul corrispettivo ctDNA estratto da plasma è del 60-65%, un risultato negativo non esclude la presenza di una mutazione. Inoltre l’indicazione dell’EMA prende in considerazione, in relazione alle analisi preliminari dei risultati ottenuti dagli studi clinici, il solo campione di plasma, ma come dimostrato da altri gruppi, alcune mutazioni rilevate su ctDNA estratte da siero e che predicono risposta a TKI, non vengono riscontrate sul corrispettivo campione di plasma. Per tale motivo, si suggerisce l’analisi combinata del ctDNA estratto da almeno un prelievo di plasma ed un prelievo di siero. Altro ambito di applicazione è quello relativo alla definizione delle mutazioni di resistenza in seguito ad una prima linea di trattamento con anti EGFR. In quest’ambito è frequente l’assenza di tessuto da cui estrarre il DNA, perché o per comorbilità o per bassa compliance del paziente è spesso difficile prelevare il tessuto mediante re-biopsia per saggiare l’insorgenza di una mutazione di resistenza. Infatti, bisogna specificare che, se s’intende ricercare tali mutazioni (in particolare la T790M), bisogna tenere in considerazione che non è adeguato utilizzare il tessuto prelevato prima del trattamento. Per tale motivo, in tale ambito, il ctDNA estratto da plasma ha un ruolo fondamentale e consente di selezionare pazienti per il trattamento con inibitori diretti contro il dominio TK di EGFR di terza generazione.
Ma sicuramente il 2015 verrà ricordato come l’anno in cui l’immunoterapia ha mostrato significativi risultati anche nel tumore del polmone, candidandosi a ricoprire un ruolo chiave nella terapia di questa patologia nell’immediato futuro.
In particolare il trattamento di seconda linea nel NSCLC ha subito nell’ultimo anno alcune profonde modifiche, grazie all’avvento dei farmaci definiti inibitori dell’immunocheck-point.
Tra questi il Nivolumab è un anticorpo della classe IgG4 rivolto verso il recettore Programmed Death 1 (PD1) che ha già dimostrato attività in diversi tumori quali melanoma, carcinoma del rene, mammella e polmone. Nell’articolo di Brahmer et al. 3, sono riportati i risultati di uno studio di fase III randomizzato (Checkmate 017) con 272 pazienti affetti da NSCLC squamoso che hanno ricevuto Nivolumab alla dose di 3 mg/kg ogni 2 settimane vs Docetaxel 75 mg/m2 ogni 3 settimane in seconda linea di terapia per NSCLC squamoso.
La sopravvivenza mediana, end-point primario dello studio, è risultata significativamente aumentata nel braccio con Nivolumab: 9,2 mesi vs 6,0 mesi (HR 0,59 p < 0,001). La percentuale di pazienti vivi ad un anno è stata del 42% nel braccio Nivolumab vs il 24% del braccio con Docetaxel.
RR e mPFS sono risultati statisticamente superiori nel braccio trattato con Ab antiPD1.
Gli effetti collaterali sono stati inferiori nel braccio sperimentale anche se di natura profondamente diversa rispetto al chemioterapico tradizionale.
I dati di attività ed efficacia non si sono modificati anche in seguito alle analisi per sottogruppo riguardanti i livelli di espressione di PDL1.
Nivolumab, alla luce di questi dati, può essere considerato un nuovo standard di terapia nel carcinoma polmonare squamoso pretrattato. Il farmaco ha poi mostrato buoni risultati anche nell’istotipo non squamoso in uno studio successivo (Checmate 057), ed insieme ad altri farmaci appartenenti alla stessa classe, quello in fase più avanzata di sviluppo clinico è il Pembrolizumab che ha mostrato grande efficacia nei pazienti che esprimono PDL1 rappresentando uno dei campi di maggiore interesse nella terapia del tumore del polmone. I prossimi studi valuteranno se la strategia di impiego con inibitori del check-point immunitario potrà essere impiegata direttamente nella popolazione non pretrattata, nel setting adiuvante e in quello localmente avanzato.
Riferimenti bibliografici
- Robinson CG, Patel AP, Bradley JD. Postoperative radiotherapy for pathologic N2 non-small cell lung cancer treated with adjuvant chemotherapy: a review of the National Cancer Data Base. J Clin Oncol. 2015.
- Karachaliou N, Mayo-de-las-Casas C, Molina-Vila MA, Rosell R. Real-time liquid biopsies become a reality in cancer treatment. Ann Transl Med. 2015; 3:36.
- Brahmer J, Reckamp KL, Baas P. Nivolumab versus docetaxel in advanced squamous-cell non-small-cell lung cancer. N Engl J Med. 2015; 373:123-35.
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