Michel Foucault: un’indagine su medicina e potere - Terza parte
Abstract
Le opere del filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) costituiscono uno dei momenti più interessanti, acuti e complessi della ricerca filosofica del XX secolo. Il suo lavoro sul costituirsi della malattia come oggetto di indagine e contemporaneamente di repressione e di controllo sul corpo rimane un contributo insostituibile per chiunque voglia cercare di comprendere le interazioni e le influenze storiche e sociali che sono alla base di ogni interpretazione della condizione di salute e di quella di malattia nelle diverse epoche. Una possibilità affascinante per chi non voglia limitarsi alla sola conoscenza biologica di questi fenomeni.
Articolo
Un tempo la povertà era stata vista come uno strumento di origine divina, una possibilità di scelta dell’uomo per manifestare la fede. Aiutando il povero e compiendo degli atti caritatevoli si poteva guadagnare la salvezza. Con la negazione del valore delle opere compiute, proclamata da Martin Lutero e dalla Riforma protestante, da occasione di merito per la grazia divina la povertà era ricaduta nell’ambito di una condizione di colpa. Chi ne era stato colpito manifestava in questo modo le proprie manchevolezze, la propria inadeguatezza morale. Riceveva forse una condanna per dei comportamenti occulti che dovevano essere stati riprovevoli anche se tenuti segreti. Il povero divenne un condannato allo stato di indigenza e la povertà iniziò a rivestire un ruolo di disapprovazione sociale.
Povertà e follia divennero odiose, non tanto per le miserie corporali di cui non era più ammessa la compassione benevola, quanto per la presunzione in essere testimonianza di errori spirituali, di veri e propri peccati che facevano orrore al nuovo e comune sentire che si era venuto a creare nelle nazioni europee protestanti. Al termine di questo percorso di mutazione comportamentale nei confronti della povertà e della diversità si costituirono le grandi case d’internamento, generate dalla laicizzazione della carità, che divenne un compito dello stato e dalla punizione indiretta della miseria. Luoghi di reclusione, il carcere e il coevo ospedale, scaturiti dalle direttive del potere costituito, che condannavano senza appello a una emarginazione morale, prima ancora che materiale. La carità venne regolamentata da leggi apposite e la povertà fu considerata una colpa contro l’ordine pubblico. Si elaborarono così per Foucault due diversi modi di intendere la povertà e la follia, che venne giudicata connessa all’indigenza. Da un lato esisteva una modalità sociale retta dal bene, in cui la povertà era sottomessa e si adattava all’ordine costituito che le veniva imposto. In un altro contesto si collocava invece la modalità del male, presidiata da una povertà ribelle e anarchica, che cercava di sfuggire all’ordine sociale. La prima situazione accettava l’internamento e vi trovava una pace relativa e un sostentamento. La seconda lo rifiutava e rigettando la reclusione dimostrava di meritarsela:
Una caratteristica ideologica dell’Età Moderna fu di trovare nell’espiazione fornita dal lavoro la giustificazione alla costruzione delle case d’internamento. Nella concezione cristiana il lavoro era una condanna che l’uomo era stato costretto a scontare in seguito al peccato originale e rivestiva un ruolo di penitenza e di riscatto. Lo stesso Adamo era stato destinato al lavoro per procacciarsi il cibo, dopo la sua cacciata dal Paradiso Terrestre. Il povero, il folle, tutti coloro che nella società europea del XVII e XVIII secolo si dichiaravano refrattari alla logica del lavoro sfidavano in quest’ottica la volontà divina. Nell’etica protestante e calvinista era la grazia che donava la salvazione nell’aldilà. Il successo economico nel mondo dei viventi costituiva una testimonianza certa di questo favore divino, concesso in virtù del lavoro e della sua positività sociale a chi si dichiarava fedele ai comandamenti in modo da meritare la salvezza. Non lavorare costituiva pertanto una forzatura nei confronti della benevolenza di Dio, un mettersi volontariamente in una condizione di colpa e di rifiuto della grazia divina.
Nell’Età Moderna la pigrizia, l’indolenza e l’ignavia divennero testimonianza del male e dell’eresia. Di converso sia la follia che i comportamenti alienati ricaddero nell’ambito ideologico di questa concezione. Mentre nel Medioevo la sensibilità e l’atteggiamento positivo verso la follia erano legati al riconoscimento dell’esistenza di una sua trascendenza irrazionale verso l’assoluto, una qualità che tutto poteva giustificare, dopo il XVI secolo il folle venne giudicato secondo l’etica moderna del lavoro che costui invece rifiutava e in virtù della sua conseguente inutilità sociale. Il matto sarà pertanto condannato a essere escluso dal contesto dei giusti e degli onesti, insieme ai poveri, ai malati cronici, alle prostitute e ai criminali 1.
La pazzia nel mondo moderno affermava l’incapacità di far parte dell’ordinamento civile, l’autoesclusione dalla comunità di coloro che seguivano le regole dello stato e della fede religiosa. La nascita e il consolidamento degli stati nazionali, nel loro desiderio di affermazione come corpo giuridico indipendente nei confronti del potere transnazionale della chiesa, istituirono nuove leggi con valori assoluti e laici da non violare, pena l’esclusione e l’allontanamento dalla società, sia nel senso di una soppressione fisica che della reclusione a lungo termine. Per questo motivo venne istituita una linea di demarcazione, anche fisica, tra lo spazio sociale lecito e accettato dai più e la follia vera e propria. I pazzi vennero confinati in una zona neutrale, un territorio di reclusione dove potevano manifestare la loro devianza all’oscuro della vista dei più e senza turbare l’ordine costituito. Fu negata loro e per sempre la possibilità e la libertà di rivendicare uno stile di vita alternativo.
Il mondo degli internati era vario e affollato da molteplici personalità e tipologie umane. Entrando in uno qualunque dei numerosi luoghi destinati al contenimento dell’alienazione si potevano incontrare, oltre ai folli, ai criminali e ai dissidenti politici, migliaia di persone che vi erano state rinchiuse a diverso titolo. Vittime sfortunate dell’abuso e della prevaricazione che venivano esercitati con totale discrezionalità. Poteva essere imprigionata ogni forma di comportamento che si scontrasse con la razionalità e rivendicasse il diritto ad una mancanza di omologazione, che disturbasse il quieto vivere dei più, dedito al lavoro e all’osservanza delle leggi. Anche il libertinaggio, come quello praticato con pervicacia scandalosa dal marchese Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814), sarà visto affine alla problematica della follia e del delirio. Recluso per buona parte della vita, de Sade finirà i suoi giorni nell’ospizio di Charenton, condannato a causa della propria condotta trasgressiva e non per una specifica follia, difficile da dimostrare. Il licenzioso Marchese affermerà e rivendicherà un proprio stile di vita e la fedeltà a delle idee devastanti e socialmente impresentabili, da lui professate e sempre respinte dall’autorità, sia al tempo dei re di Francia, che nella nuova e apparentemente più moderna e tollerante società napoleonica. Una devianza intellettuale, quella di de Sade, prima di una diversità vissuta, che lo rese assolutamente non integrabile nel contesto delle diverse epoche della propria esistenza. Saranno pertanto condannate anche la magia, l’alchimia e le forme di sessualità diverse da quelle approvate, che verranno respinte come forme di rifiuto di ragionevolezza e di utilità sociale. L’omosessualità venne punita come devianza e sintomo di follia. Anche un gesto tragico e disperato come il suicidio fu posto alla stregua di altre manifestazioni della follia e sottoposto alla pubblica riprovazione:
L’empietà e la bestemmia contro la religione professata dalla maggioranza saranno duramente punite da quest’etica laica della correzione forzata. L’esperienza dell’internamento avrà per l’ateo un compito di rieducazione e di rinnovamento morale, che contrasterà l’attaccamento riprovevole a credenze errate. La prigionia farà parte di un tempo da dedicare alla riflessione, per potersi adeguare ad una verità ineludibile ed insindacabile, quella rappresentata dalla religione, chiamata a benedire e approvare l’ordine costituito. Anche i malati di sifilide venivano internati all’Hôpital général, sia a causa dell’oscurità intorno all’origine del loro male che in quanto giudicati esseri corrotti. Venivano ritenuti portatori di colpe inconfessate e vittime della punizione lungimirante e riparatrice di Dio. Considerati bisognosi di castigo e di penitenza erano rinchiusi come motivo di scandalo. Aveva scritto in proposito Thierry de Hery, un medico francese vissuto nel XVI Secolo:
La concezione di un male legato al corpo e alla deviazione morale giustificava le costrizioni fisiche universalmente diffuse nella pratica dell’internamento. Occorreva castigare il corpo, anche attraverso metodi coercitivi e crudeli, dal momento che questo legava in modo ineludibile il malato al peccato e costituiva lo strumento e la sua finalità di godimento. Si curava la malattia agendo su di una condizione esistenziale, quella di essere uomini, a cui non si poteva ovviamente sfuggire. Uno stato che favoriva di per sé stessa la devianza e la colpa. Il corpo del folle venne considerato un possibile strumento di peccato e l’ospedale si costituì come un luogo di redenzione, vera o presunta tale, dai peccati della carne e dagli errori della ragione e dello spirito. Si trattava di una logica solo apparentemente di tipo medico, che si proponeva di procurare il bene e la liberazione dal male attraverso la privazione della libertà e le sofferenze inflitte. Nonostante l’associazione tra la medicina e una equilibrata condotta morale fosse praticata fin dall’antica Grecia, pensiamo agli scritti di Ippocrate e di Galeno, attraverso l’istituzione di luoghi di segregazione e cura nell’Europa del XVII secolo questa relazione venne considerata in modo alquanto disinvolto.
Si utilizzò una connotazione morale per giustificare la repressione del diverso e la sua coercizione legata all’obbligo di meritare una salvezza prima morale, poi materiale. L’alienato divenne un personaggio destinatario dell’isolamento sociale, da additare alla riprovazione della maggioranza dei normali. I cittadini rispettosi della legge sentirono il dovere di distaccarsi nei loro comportamenti pubblici e privati da individui come l’omosessuale, l’ateo, la prostituta, il bestemmiatore, il mago, il suicida. Non si trattava più dei personaggi che avevano popolato la Nave dei Folli, rappresentanti di tipologie umane tollerate e bonarie, come il ghiottone, il sensuale, l’orgoglioso, a cui poteva essere applicata una sorta di benevolenza verso i loro difetti, una specie di sorridente comprensione popolare:
Mentre nel Medioevo il problema della follia era ancora inserito nella dialettica del contrasto tra bene e male ed era accettato e giustificato nel segno della tragicità e della imprevedibile precarietà della condizione umana, nell’Età Moderna l’analisi che l’uomo elabora della realtà che lo circonda contrappone in modo radicale la ragione alla non ragione, confinando progressivamente quest’ultima lontano da ogni valore. Venne compiuta una scelta razionale, ma pretenziosa. Ci si propose di eliminare dal contesto sociale la follia, una scelta essa stessa la più impossibile delle strade da percorrere. Pretendere di eliminare la diversità rinchiudendola entro le mura di una prigione vera e propria, seppure mascherata da propositi di beneficenza, risultava altrettanto assurdo che giustificarla senza alcun intervento d’aiuto. Affermare che era possibile definire cosa fosse la follia, in contrasto con la normalità, autorizzava ad una condanna di chiunque decidesse o manifestasse la propria differenza sociale. Una delle parole più adoperate per caratterizzare il comportamento del folle e autorizzarne l’internamento divenne quella di furioso, un aggettivo che rimandava a una condizione di giudizio e di colpevolezza propria della giurisprudenza, piuttosto che della medicina:
L’utilizzo di un termine indifferenziato e sfuggevole per sua natura, come la parola furioso, permetteva alcune decisioni poliziesche, autorizzando l’internamento in nome di una presunta sicurezza sociale. In questo modo la pazzia, di cui nel XVIII secolo non esisteva una vera comprensione scientifica, venne apparentata ad altri comportamenti ritenuti trasgressivi e perseguibili, come l’ateismo ostentato oppure il libertinaggio. Come era avvenuto con il Marchese de Sade, si istituzionalizzò la punizione dello scandalo e l’ostentazione della diversità. Un’azione coercitiva che si arrestava spesso davanti alle porte di una nobiltà prudentemente più discreta, che esercitava anch’essa una vita di eccessi, ma al riparo delle mura di lussuose dimore.
La rivoluzione francese avrebbe spazzato via queste isole di permissività, in nome di una moralità borghese che non tollerava la trasgressione che ostacolava la produttività. Non permetteva il libertinaggio deliberato nemmeno tra le mura di casa e considerava questi comportamenti un fattore di disturbo al meccanismo di produzione della ricchezza. Si formò una moralità ancora più restrittiva e oppressiva. Esemplare a questo proposito è la vicenda del Panopticon, il carcere rieducativo ideale auspicato dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832) in un suo scritto del 1791, quando la rivoluzione francese aveva iniziato ad abbattere da tempo le fondamenta e i principi costitutivi dell’Ancien Régime. In questa struttura di reclusione e di rieducazione, di forma per lo più circolare, i detenuti sarebbero stati sorvegliati giorno e notte da un osservatore posto centralmente in un punto di visione privilegiato. Da questo luogo il guardiano avrebbe potuto controllare senza essere visto ogni comportamento dei reclusi, facendo loro avvertire la propria presenza a livello psicologico in ogni momento del giorno e della notte, sebbene non visibile ai prigionieri.
Condizionati in questo modo nei loro comportamenti i detenuti avrebbero acquisito progressivamente uno stile di vita onesto, da cui non si sarebbero separati nemmeno dopo la liberazione. Avrebbero trascorso il tempo libero lavorando per la collettività, sorvegliati da un invisibile carceriere al cui occhio vigile non sarebbe sfuggito il comportamento deviante. Nonostante questo tipo di virtù imposta per legge e coercizione senza alcuna possibilità di scelta suscitasse qualche ben motivata perplessità, le idee di Bentham trovarono seguaci condiscendenti. Molte strutture carcerarie europee, anche in Italia, vennero costruite secondo le intuizioni dell’eccentrico filosofo inglese, che dopo la propria morte si fece imbalsamare e riporre vestito di tutto punto in un armadio di legno e vetro con funzioni di teca. Un recesso da cui poteva magari continuare a partecipare in modo silenzioso alle riunioni del senato accademico dell’University College di Londra.
Numerosi ospedali edificati nel XIX secolo testimoniarono la possibilità offerta a pochi, grazie agli artifici architettonici, di controllare la vita di molti, in deroga alle libertà individuali e in vista di un presunto bene superiore. Si trattava di istituzioni che divennero promotrici di una vera e propria terapia sociale che veniva imposta nel carcere, oppure offerta in modo relativamente più caritatevole nel caso dell’ospedale. Tuttavia nell’Hôpital général del XVIII secolo invece vigeva la totale assenza di cure specifiche. I medici erano presenti solo ed esclusivamente in virtù di un regio decreto. I folli, i poveri, i devianti sociali, non venivano rinchiusi per guarire da patologie vere o presunte, dal momento che questo problema non si poneva. Tra quelle mura intrise di dolore dovevano terminare i propri giorni secondo le regole e le coercizioni di una vita di reclusione lontana dalla società dei normali. Donne e uomini privati con la forza di ogni possibilità di esercitare una qualsiasi azione di pubblico scandalo:
Secondo Foucault la follia non era stata ricompresa fino ad allora nel dominio della medicina. Il pazzo non aveva mai avuto bisogno nel passato della certificazione medica per accedere ad uno stato di diversità ed essere riconosciuto come facente parte di un nucleo sociale da delimitare. Per tutto lo scorrere dei secoli del Medioevo lo statuto di folle era risultato estraneo a una correzione forzata. Le comunità medievali si preoccupavano di perseguitare con rigore i chierici devianti, gli intellettuali, gli eretici, le cui scelte ideologiche potevano minare le fondamenta della fede comune. Per gli eretici non pentiti e recidivi era previsto il rogo, insieme alle opere del loro ingegno sovversivo. Ai folli era riservata unicamente un’emarginazione benevola dai processi produttivi ed economici. Si accettava la diversità in quanto manifestazione di un volere divino e imperscrutabile.
Riferimenti bibliografici
- Foucault M. Storia della follia nell’Età Classica.. BUR: Milano; 2003.
- de Thierry Hery. La methode curatoire de la maladie venerienne, vulgairement appellée grosse vairolle: de la diversité de ses symptomes. Matthieu David: Paris; 1552.
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