Le idee di salute e di malattia - Quarta parte
Abstract
Le idee di salute e di malattia appaiono immediate e semplici e non viene di solito condotta una riflessione sulla loro formazione. Si tratta invece di due condizioni della vita che non sono rigidamente separate. Non è possibile dividere in modo sicuro uno stato di salute da uno di malattia in quanto questi momenti non possiedono una semplice caratteristica biologica, ma sono anche il frutto di valutazioni di tipo culturale, piuttosto che medico. Accettare la complessità che precede e sostiene lo stato di malattia, oppure quello di salute, significa anche accettare la propria condizione umana e la propria fragilità, smettendo di inseguire a tutti costi stereotipi di apparenza e di benessere che possono generare un sentimento di inadeguatezza legato a logiche di consumo e non di cura.
Articolo
Il sovrapporsi e l’intrecciarsi di aspetti legati alla fisiopatologia con quelli relativi a una vera e propria salvezza per l’ammalato e la possibilità di evitare un destino di dolore e di morte per un’altra persona, costituiscono l’essenza stessa della medicina. Secondo l’antropologo Byron J. Good, la medicina permette di affrontare il mondo e la realtà in quanto tali, articolandosi come un vettore di esperienze diverse e un mezzo di dialogo e di incontri. Possiede una capacità di interpretazione dei fatti e di modulazione dei conflitti tra gli esseri umani che può consentirgli di trasformare i rapporti interpersonali. I pazienti avvertono la propria condizione umana all’interno di una rete di significati multiformi, legati all’unicità di persone che si correlano tra di loro. L’attenzione a questa molteplicità di fattori potrebbe aiutare i sanitari a rispondere ai bisogni dei loro assistiti 1.
Nel corso dei loro studi i giovani medici vengono educati a scomporre le storie personali dei pazienti che incontrano, a cercare il particolare nei loro vissuti, a rendere oggettivi i loro corpi dotandoli di alcuni segnali di riconoscimento condivisibili legati ai segni clinici. Imparano a ricostruire i diversi casi che si presentano nella professione secondo un modello specifico e preordinato composto di segni e di sintomi. Una visione del malato che appare così ovvia da non necessitare di perdere troppo tempo in una discussione critica. Gli studenti del corso di laurea in medicina acquisiscono un nuovo modo di vedere la realtà, di scrivere, di parlare e di relazionarsi con i colleghi, con gli altri operatori sanitari e con i pazienti. Diventare medico significa essere formato a un diverso tipo di linguaggio, a una modalità di relazione specifica con cui farsi riconoscere all’interno di una nuova comunità di riferimento come uno dei suoi membri. Non è più consentito esprimersi in un modo diverso da quello condiviso e accettato dalla comunità scientifica. L’uso obbligatorio di un determinato apparato di termini tecnici finisce con l’essere altrettanto importante del possesso delle nozioni necessarie per diventare medico. Il linguaggio diviene pertanto forma e formazione esso stesso, obbligando la personalità del medico a disporsi e a comunicare attraverso delle coordinate obbligate. Restringere la comunicazione a un numero preordinato di termini e di frasi costringe a una interpretazione del reale preordinata. La realtà di dolore e di malattia, come pure quella di salute e di benessere, diventano ciò che i medici sono in grado di comprendere e soprattutto descrivere, trasmettere alla loro comunità e agli altri esseri umani, utilizzando degli strumenti relazionali che sono stati creati ed elaborati in tal senso attraverso un processo di affinamento durato secoli. I fenomeni naturali che non sono in grado di essere ricompresi in questa griglia descrittiva semplicemente non esistono. Non possono esistere, perché non possono essere rappresentati e trasmessi in un modo giudicato tecnicamente corretto. Il corpo umano viene inteso e immaginato come un oggetto di indagine, come un’entità distinta rispetto ai corpi con cui interagisce nella vita quotidiana. Gli studenti di medicina sono consapevoli del fatto che stanno apprendendo un modo alternativo di osservare e descrivere la realtà, una diversa abilità percettiva per ricostruire l’immagine del malato e della sua fisicità secondo delle coordinate precise. Si tratta di un processo simile a quello determinato dall’apprendere la lettura di una carta nautica. Se non si è in grado di comprenderla e di tracciare una rotta si finirà inevitabilmente sugli scogli o in un tratto di mare diverso da quello verso cui avremmo voluto dirigerci. Esiste un pericolo ancora maggiore, costituito dall’introduzione di strumenti tecnologici in grado di guidarci senza dover ricorrere a delle valutazioni elaborate dalla mente umana. Un elemento che può appiattire e semplificare il modo di leggere la realtà, poiché la comprensione dell’altro viene demandata a una macchina, la quale utilizza il linguaggio che le viene insegnato come l’unico possibile, il più sicuro e autorevole. Nella descrizione del caso clinico, nella redazione dei referti e dei documenti che lo descrivono, persino nella lettura degli esami strumentali praticati, gli studenti in medicina imparano a organizzare le storie dei pazienti sotto forma di documenti redatti secondo le regole che hanno appreso attraverso un lungo e duro tirocinio. Non possono allontanarsi da alcuni argomenti obbligatori che devono essere riferiti unicamente a problemi di tipo medico. Anche se volessero dilungarsi nell’approfondire particolari aspetti del loro paziente, questo intervento potrebbe essere giudicato in senso negativo, respinto o disapprovato come inutile e dannoso. La visione del mondo di chi cura si colloca su di un piano conoscitivo e linguistico radicalmente diverso rispetto a quello dell’esperienza del malato. Esserne consapevoli permetterebbe al medico di riavvicinarsi all’ascolto del paziente come un individuo e come una persona, dando spazio a interventi mirati e ad aspetti spesso trascurati del disagio che il malato cerca di raccontare, modificando un comportamento tecnico ritenuto intoccabile e appreso nei primi anni del proprio percorso formativo. Si tratta di un habitus comportamentale da cui il medico teme di distaccarsi, per non incorrere in giudizi di eccentricità o di scarsa aderenza a regole e protocolli stabiliti dalla sua comunità scientifica di riferimento, la quale difende tenacemente i propri paradigmi scientifici e con minore consapevolezza, ma con altrettanta tenacia, quelli linguistici. La definizione stessa di cosa sia in sé la malattia e in particolar modo la condizione di malato, ha generato una copiosa letteratura in proposito. Pensiamo alla distinzione propria del mondo anglosassone tra disease, intesa come disfunzione dell’organismo rilevabile in modo oggettivo attraverso dei segni e dei sintomi e illness, lo stato patologico considerato come una percezione soggettiva dello stesso da parte della persona malata. Senza dimenticare la sickness, il riconoscimento dello stato di malattia da parte della comunità in cui l’individuo colpito vive il quale comporta una presa in carico dei bisogni del paziente da parte degli organi di assistenza e delle istituzioni, oltre che della sua famiglia, conferendo alla patologia una rilevanza e un ruolo sociale. La definizione di cosa sia la malattia ha sempre rappresentato una delle questioni più complesse della medicina. Cercare di stabilire le caratteristiche di tale concetto non è mai stata un’operazione soltanto filosofica o biologica, ma è legata a una serie di ricadute di carattere clinico e pratico, oltre che sociali, medico-legali e giuridiche. Per il padre riconosciuto della Medicina Occidentale, Ippocrate di Kos (460-370 a.C.), la malattia costituiva un fenomeno naturale, corrispondente alla rottura dell’equilibrio esistente tra i vari umori che pervadevano l’organismo. Questi umori, costituiti dal sangue, dal muco, dalla bile gialla e dalla bile nera, erano alla base di un complesso sistema di governo delle funzioni fisiologiche, che vedeva la presenza di una relazione diretta tra i costituenti più importanti del corpo umano e le qualità fondamentali del mondo inanimato. Si trattava di un tentativo di comprensione della realtà che era stato elaborato in accordo con le teorie dei filosofi presocratici come Pitagora ed Empedocle di Agrigento. Questi primi studiosi della natura avevano cercato un principio costitutivo semplice, che spiegasse la diversità delle forme e degli elementi del mondo. Un fattore che si rivelasse come un elemento comune alla base delle molteplici forme di vita. Il concetto di malattia proposto da Ippocrate era legato alla rottura di un’architettura stabile e armonica che il medico di Kos aveva ipotizzato essere presente nel corpo umano. Un’idea che fu condivisa e perfezionata da Claudio Galeno di Pergamo nel II secolo dopo Cristo, un altro grande medico dell’Antichità che elaborò una concezione della malattia come un fenomeno di disequilibrio. Si trattò di una visione ideologica che rimase come largamente accettata fino al XVII Secolo. Le opere di Galeno (130-200 d.C.) venivano ancora lette e insegnate con rispetto, in senso pratico e operativo e non solo come una semplice curiosità storica, nelle università europee del XVII e perfino del XVIII Secolo. La malattia era stata considerata per millenni come un evento non solo naturale, ma anche di tipo magico e religioso. Poteva essere interpretata come l’effetto di una vendetta o di una punizione divina, una concezione che si riallacciava senza troppa difficoltà alla visione cristiana della sofferenza fisica come una colpa, un debito da pagare alla divinità per comportamenti di peccato e di trasgressione. Questa idea della malattia non era unicamente cristiana, ma affondava le proprie radici nella concezione greca di punizione nei confronti della ubris, l’orgoglio empio dell’uomo di ergersi alla stessa dignità degli Dei dell’Olimpo. Secondo la religione e la mitologia pagana la ubris era la più grave delle colpe di cui si potesse macchiare un mortale, un errore cui seguiva una condanna senza scampo 2. Si trattava di un peccato che si era verificato per ben due volte nella ricca città di Corinto, fiorente grazie ai commerci e che aveva avuto come protagonisti due membri della stessa famiglia, il re Sisifo e suo nipote Bellerofonte. La storia di Sisifo e della punizione divina legata alla sua astuzia irridente è nota. Anche Bellerofonte cadde nella stessa trappola della ubris. Dopo aver compiuto straordinarie imprese grazie a Pegaso, il cavallo alato, Bellerofonte decise di volare con il suo destriero fino in cima all’Olimpo, insoddisfatto di aver conquistato la gloria tra i suoi simili, una fama che rimaneva però un merito solo di tipo umano. Purtroppo per lui e per decisione degli dei gelosi e infastiditi da tale tracotanza, il cavallo alato lo disarcionò e l’eroe precipitò al suolo rimanendo condannato dalla caduta a un’esistenza di perenne vecchiaia e invalidità, dimenticato da tutti. Eppure, in contrasto con ogni interpretazione di tipo magico, nella Grecia Antica era nata una medicina razionale, fondata sull’osservazione dei fenomeni presenti nel corpo umano e sulla trasmissibilità delle nozioni apprese dall’esperienza e dalla conoscenza accumulata nel tempo. La concezione ippocratica della natura degli esseri viventi e dei fenomeni morbosi era stata costruita in modo unitario, immaginando che il corpo fosse un insieme armonico in cui l’intervento medico dovesse tenere conto delle ripercussioni che le modifiche di una parte avrebbero avuto sul tutto. Questa visione del corpo come un’entità da rispettare nel suo equilibrio si protrasse per secoli, a dispetto della relativa efficacia dei metodi terapeutici, fino alla nascita della moderna Anatomia e in particolar modo dell’Anatomia Patologica 3. Paracelso (1493-1541) rifiutò l’idea ippocratica di un’armonia tra i diversi costituenti dell’organismo e modificò l’antica concezione della patologia elaborata nel Mondo Classico a cui non erano state estranee delle influenze Orientali e provenienti dall’Antico Egitto. Paracelso rigettò l’interpretazione delle malattie come delle alterazioni di fenomeni naturali causate da fatti sconosciuti. Per il medico svizzero la malattia era costituita da modificazioni indotte dall’ambiente e da fenomeni difensivi messi in opera dall’organismo in risposta a degli interventi aggressivi. Iniziò in questo modo la disgregazione della visione delle malattie come fenomeni che aggredivano il corpo nell’insieme. Quella di Paracelso fu una teoria che ebbe successo e che venne sostenuta da molti medici nel corso del XVI secolo perché permetteva una più semplice e intuitiva modalità di affrontare le varie patologie, liberandosi dalla necessità di obbedire all’autorità carismatica dei medici del passato e alle restrizioni ideologiche e religiose del presente 3. Nel suo De Humani Corporis Fabrica, composto nel fatidico anno 1543, Andrea Vesalio formulò una concezione bio-meccanica del corpo umano che non è più stata abbandonata nelle sue linee fondamentali. L’esperienza diretta del medico che affondava le mani nel corpo del cadavere, di quello che era stato un uomo e un malato attraverso l’esecuzione di molteplici autopsie, ridimensionò le teorie cristallizzate da secoli di osservanza agli insegnamenti degli Antichi. Favorì la nascita di un sapere medico pratico che accettava solo ciò che vedeva e solo con questo si confrontava. La vista divenne l’organo di senso di riferimento dell’Età Moderna, che potrebbe essere definita come l’Età della vista. Attraverso lo sguardo Cristoforo Colombo scopriva il Nuovo Mondo, inaugurando un tempo a cui non basteranno le confortanti affermazioni della fede per erigere dei modelli conoscitivi e prendere delle decisioni. L’esperienza visiva e la ragione umana che l’accoglieva e la elaborava diventeranno le uniche forme di garanzia su cui venne costruito il prestigio e la ricchezza dei popoli europei. L’osservazione diretta del mondo costituirà la modalità propria di questo cambiamento. Nello stesso anno Domini 1543 in cui Vesalio pubblicò la sua opera, venne diffuso il De Rivolutionibus Orbium Coelestium, il libro dell’astronomo di origine polacca Nicolò Copernico dedicato al papa Paolo III Farnese, che disegnò un nuovo di intendere il Creato e l’Universo. Sovvertì per sempre la visione astronomica di Tolomeo e di Aristotele affermando un’ipotesi cosmologica alternativa che troverà la sua esperienza diretta e naturalmente visiva con Galileo Galilei nel secolo seguente. Attraverso l’uso del telescopio e l’affermazione dell’analogia positiva tra ciò che si osservava da vicino e ciò che era possibile vedere in lontananza, la ragione umana poteva liberarsi dei condizionamenti culturali della religione. La macchina costruita dall’uomo, il telescopio, si faceva garante del mondo. Reale era solo ciò che poteva essere visto da uno strumento che espandeva le capacità visive dell’occhio e lo stesso accadeva contemporaneamente, seppure con minore risonanza, attraverso il microscopio, grazie alle lenti costruite degli artigiani fiamminghi e olandesi. Lo studio descrittivo prese il sopravvento sulle ipotesi eziologiche ancora premature per i tempi. Rimanevano in auge suggestioni antiche, come quella elaborata da Thomas Sydenham (1624-1689), uno dei più celebri medici del XVII secolo, secondo il quale le varie malattie non erano fenomeni che interessassero l’una o l’altra parte del corpo, ma eventi che coinvolgevano l’intero organismo in una visione complessiva della persona che non dimenticava la lezione ippocratica del passato. Con la nascita della moderna Anatomia Patologica a opera di Giovan Battista Morgagni (1682-1771), l’evento morboso venne nuovamente e definitivamente ridimensionato a un’alterazione locale che modificava la struttura anatomica di uno o più organi. Per l’anatomico padovano la malattia non era solo riconducibile alla descrizione dei diversi quadri sintomatici presentati dai pazienti, ma doveva essere legata alla conoscenza accurata delle lesioni anatomiche corrispondenti secondo un’ideologia meccanicistica derivata dalla nuova scienza sperimentale che aveva da poco conquistato il mondo, la Scientia nova. Ai nostri giorni l’idea che la malattia sia un fenomeno specifico di cui si possa avere esperienza e conoscenza univoca appare ovvia anche al sentire comune, ma fino a tutto il XVIII secolo questa valutazione non era scontata. Le malattie potevano venire identificate solo per mezzo di sintomi incerti che si presentavano spesso insieme e in un modo approssimativo agli occhi di un medico che non fosse stato preparato a cogliere le differenze. La visione speculativa del medico inglese Thomas Sydenham (1624-1689) ad esempio, era basata su degli elementi osservabili che il clinico poteva rilevare al letto del malato, come la febbre, il dolore, le convulsioni e via elencando. Ne era derivato un concetto di malattia relativamente preciso e comunque utile a mettere ordine nella confusione dei quadri sintomatologici che si mostravano all’osservazione del medico. Ci si accorse lentamente che le malattie erano processi complessi e non solo delle realtà oggettive e direttamente identificabili in modo sicuro come una pianta o un animale. Alcuni segni clinici simili potevano essere presenti in malattie che apparivano in seguito estremamente diverse tra di loro, per natura e decorso. I sintomi cominciarono a non essere più considerati come una malattia loro stessi e l’evento morboso venne lentamente valutato come un’unione di vari sintomi e segni che agivano simultaneamente o che si succedevano cronologicamente ed erano tra di loro congiunti. Dalla consapevolezza della natura dei sintomi e dei segni clinici si arrivò lentamente alla nozione di malattia. Tuttavia questa visione fenomenologica degli eventi patologici ricevette un colpo gravissimo nella seconda metà del XIX secolo dopo la nascita della teoria microbiologica e la dimostrazione che le malattie epidemiche, le quali costituivano il fattore di maggiore causa di morte nella popolazione europea del tempo, erano legate all’azione causale di uno specifico microrganismo. Il concetto di malattia infettiva e diffusiva si era affermato lentamente nella storia della medicina. Alla metà del Cinquecento era stato Girolamo Fracastoro (1478-1553) con il suo libro De contagione et contagiosis morbis a ipotizzarlo per primo nel corso di un’epidemia di tifo petecchiale che aveva minacciato lo svolgimento del Concilio di Trento. Medico ufficiale del concilio, Fracastoro lo fece trasferire momentaneamente a Bologna a causa di una probabile epidemia di rickettiosi. Saranno necessari altri tre secoli perché la consapevolezza dell’infettività di alcuni eventi morbosi trovi una piena accoglienza nella comunità medica e nel sentire comune. Era stata a lungo convinzione diffusa, anche tra gli uomini di scienza, che Dio si fosse occupato direttamente della creazione dell’uomo e degli altri animali più complessi, mentre avesse lasciato all’azione della natura il compito di generare gli esseri viventi minuscoli e considerati meno importanti da un punto di vista naturalistico. Forme di vita da considerarsi di rango inferiore perché di piccole dimensioni e ritenute prive di capacità cognitive 4 5. Anfibi, insetti, vermi e via dicendo sarebbero stati originati direttamente dal fango e dall’acqua tiepida degli stagni, luoghi in cui avrebbe agito una forza vitale intrinseca alla natura, un principio impalpabile, ma di cui era impossibile dubitare l’esistenza. La scoperta dei microbi come agenti patogeni cambiò radicalmente lo scenario epistemologico della medicina. Questi piccoli esseri viventi, invisibili a occhio nudo, si dimostrarono essere responsabili di molte gravi malattie indipendentemente dalla presenza di determinati riscontri clinici che potevano non essere legati al male che aveva colpito l’organismo. Grazie alle scoperte di Louis Pasteur (1822-1895) e di Robert Koch (1835-1910), il germe che provocava le alterazioni tissutali e le modificazioni patologiche delle funzioni degli organi costituiva la causa, diretta o indiretta, dei sintomi presentati dal malato e permetteva di unificare fenomeni molto diversi tra loro, variabili da un paziente all’altro. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento l’idea secondo la quale le malattie potevano sempre essere identificate dalla loro causa e che questa fosse rinvenibile comunque, legata solo ad un miglioramento dei processi conoscitivi e diagnostici, divenne il paradigma dominante della medicina. Dobbiamo però ragionare su di una domanda cui appare difficile attribuire una risposta sicura: la vita è identica a sé stessa nella salute e nella malattia? Forse essere malato significa a tutti gli effetti vivere un’altra vita e accettare il proprio destino di essere umano fragile e in equilibrio precario. Magari, come ha lasciato scritto Friedrich Nietzsche che aveva intuito molto di questo problema dalla sua stessa condizione di malato psichico: «essere uomo è la vera malattia». Sottoponendo a una semplice domanda una persona sul suo stato d’essere, questa potrà rispondere in modi diversi. Consideriamo la classica e frequente domanda «come stai?», un vero e proprio interloquire sociale, prima ancora che un interrogativo finalizzato. Si tratta di una domanda soggettiva la cui risposta potrà essere variabile. Ci potrà essere chi risponderà «bene», affermando così di vivere in uno stato di benessere. Tuttavia questa risposta potrebbe anche denotare la volontà di non descrivere la propria effettiva condizione per una naturale riservatezza, per un calcolo preciso, per un’opportunità sociale. Un’altra risposta potrebbe essere: «male». Questa seconda possibilità è un tipo di affermazione a cui non si ricorre volentieri perché comporta la necessità di fornire ulteriori spiegazioni al nostro interlocutore, entrando magari nell’ambito più intimo della propria sfera personale. Si potranno invece manifestare più liberamente dei motivi di malessere indefiniti, che possono essere di tipo fisico, psichico o sociale e riguardare la vita di relazione oppure la soggettività corporea di chi ci circonda. Il termine male si potrà rivelare inadeguato, esprimendo uno stato incerto piuttosto che un’oggettività. Di solito tra due persone è più facile instaurare una discussione sulle proprie malattie e malesseri che non sulla salute e sulla visione della vita, sulle idee politiche e sulla gestione dei propri affari. Potrebbe sembrare sconveniente interrogare un estraneo sullo stato esistenziale più intimo, come in un contesto da club per gentlemen dell’Inghilterra vittoriana, mentre apparirebbe perfettamente lecito e potrebbe essere interpretato come un segnale di riguardo chiedere notizia dei possibili malesseri a una persona che ci sta a cuore.
Riferimenti bibliografici
- Byron J. Good. Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente. Einaudi: Torino; 2006.
- Musti D. Manuale di Storia Greca. Laterza: Bari; 1994.
- Meier P. Paracelso. Medico e Profeta. Salerno: Roma; 2000.
- Hempel CG. Filosofia delle scienze naturali. Il Mulino: Bologna; 1980.
- Madigan MT, Martino JM. Biologia dei microrganismi. Hoepli: Milano; 2003.
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