La comunicazione delle cattive notizie
Abstract
La comunicazione ormai è entrata a far parte del bagaglio necessario del medico, soprattutto nel completare il delicato rapporto medico/paziente. Le abilità comunicative trovano il loro massimo impiego nella comunicazione delle cattive notizie. Imparare queste abilità è possibile e non deve essere lasciato all’improvvisazione. Il difficile equilibrio del paziente e la sua aderenza alla terapia, l’accettazione e la collaborazione della famiglia dipendono da come il medico riesce a mettersi in relazione con il mondo del malato.
Articolo
Viviamo ormai nella società della Grande Comunicazione. Naturalmente quando parliamo di comunicazione il termine va inteso nel senso più ampio della parola, da quella interpersonale a quella sociale attraverso la rete. Il termine “comunicare” deriva dal latino communis in cui distinguiamo chiaramente la radice cum che indica un legame, una connessione; la seconda parte è invece più complessa. Possiamo identificare munia, che sottolinea una sorta di doveri e legami, moenia le mura che ci circondano e ci danno una identità comune, e infine munus, il dono che ci scambiamo e che ci lega. Sintetizzando, la radice di comunicare è la stessa di comune, comunione, comunità e condivisione. Quindi quello che il termine vuole significare è che comunicare è alla base del rapporto con gli altri esseri umani. Quello che è implicito, ma non sempre messo in pratica, è il senso di reciprocità che il concetto di comunicazione contiene in sé.
È impossibile non comunicare: anche quando non parliamo è il nostro silenzio o il nostro atteggiamento che trasmette il nostro messaggio. Questo messaggio è anche in grado di modificare il comportamento dell’altro che necessariamente, a sua volta, risponde in qualche modo. Il nostro modello educativo tradizionale è fondato essenzialmente su un sistema logico in cui prevale l’intelligenza cognitiva, trascurando aspetti altrettanto importanti come quelli relazionali ed emotivi ad esempio.
È impossibile non comunicare: anche quando non parliamo è il nostro silenzio o il nostro atteggiamento che trasmette il nostro messaggio.
Il nostro impegno scolastico è incentrato sul leggere e sullo scrivere, ma nessuno ci insegna ad ascoltare e comprendere la diversità dell’altro. Quando apprendiamo una professione o un mestiere, impariamo gli aspetti più tecnici e professionali e non curiamo gli aspetti relazionali e di confronto (con colleghi, superiori o pazienti ad esempio) che, pure, hanno tanta parte nel determinare la nostra soddisfazione od insoddisfazione, la nostra gratificazione o frustrazione. Da ciò può derivare non solo la qualità della nostra vita professionale, sociale e/o privata, ma anche il nostro rendimento sul lavoro. La carenza nella preparazione alla comunicazione, la insoddisfazione dei pazienti, il conseguente aumento del contenzioso sanitario hanno stimolato tutta una serie di studi mirati a quantificare e verificare l’entità del problema. In contemporanea è nata una serie di linee guida per migliorare l’esistente e formare i professionisti in modo pratico 1-6.
Uno dei campi più frequentati per l’urgenza del problema, è la “comunicazione delle cattive notizie”, iniziato in campo oncologico, ma appannaggio non solo di questa specialità. In realtà non sempre è agevole definire cosa sia una cattiva notizia. Fallowfield e Jenkins 7 la definiscono come “qualsiasi informazione che produce una conseguenza negativa nelle aspettative di una persona relative al suo presente e al suo futuro”.
Una cattiva notizia si definisce come “qualsiasi informazione che produce una conseguenza negativa nelle aspettative di una persona relative al suo presente e al suo futuro”.
In questa definizione, sempre perfettibile, al di là della notizia in sé, quello che colpisce è la percezione soggettiva in base al proprio contesto socio-culturale, alle aspettative ed esperienze di vita, alle proprie credenze e alla presenza o meno di un supporto familiare. Come nella valutazione della qualità di vita, ciò che è meno importante è, paradossalmente, proprio la notizia. In primo piano si pone il grado di modificazione che la nuova situazione comporta nella vita del paziente e della sua famiglia. La percezione soggettiva del problema prevale sulla gravità della comunicazione. In questo senso comunicare una prognosi infausta può essere altrettanto impegnativo che l’indicazione a un trapianto di polmone o la necessità di una ossigenoterapia a lungo termine, di una CPAP (Continuous Positive Airway Pressure) per un’OSAS (Obstructive Sleep Apnea Syndrome) o la limitazione del proprio stile di vita, l’influenza sui familiari e sul sistema famiglia.
Quando viene comunicata una notizia, bella o buona che sia, da un lato ci impegniamo a comprendere logicamente quanto ci viene detto, cioè cerchiamo di “capire” in senso stretto; dall’altro la notizia provoca in noi un impatto emozionale che necessita di una elaborazione affettiva, su un piano differente dalla sola comprensione. I due processi non sono coincidenti, tanto che non è raro che il paziente ripeta esattamente quanto gli è stato comunicato senza mostrare alcuna reazione emotiva anche a notizie impegnative che evidentemente ha compreso, ma ancora non elaborato. Curtis 8 in uno studio su 50 pazienti con Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) in fase avanzata, evidenzia alcune criticità nella comunicazione medico-paziente. Questi dati sono emersi dall’analisi di un questionario somministrato ai pazienti. In particolare i pazienti lamentano una carenza nell’ascolto, nell’attenzione che viene loro rivolta e una difficoltà da parte del medico nel rispondere alle domande specifiche sulla malattia e il fine vita.
La capacità d’ascolto e d’osservazione è alla base di un processo di comunicazione efficace; ci aiuta a comprendere meglio il nostro interlocutore e a individuare eventuali fraintendimenti o problemi relazionali.
Da uno studio su pazienti con BPCO è emerso che i pazienti lamentano una carenza nell’ascolto, nell’attenzione che viene loro rivolta e una difficoltà da parte del medico nel rispondere alle domande specifiche sulla malattia e il fine vita.
Riassumere e riformulare quanto abbiamo appreso, oltre a correggere eventuali errori, permette al nostro interlocutore di sentirsi ascoltato e compreso. Un tema poco presente nel colloquio medico-paziente è quello della spiritualità e delle credenze religiose. Numerosi studi europei documentano 9 la scarsa attitudine dei medici a parlare di questi argomenti, mentre i pazienti manifestano il loro desiderio in senso opposto. Ovviamente anche il tema del cosiddetto “accanimento terapeutico” è poco frequentato, sia per la difficoltà oggettiva che per la carenza attuale di una normativa legislativa completa. Un elemento controverso è l’influenza della depressione del paziente sulla qualità della comunicazione e le sue conseguenze. Contrariamente a quanto comunemente inteso, in uno studio 10 che ha confrontato pazienti cronici affetti da BPCO, malattie cardiovascolari e diabete, si è giunti a conclusioni quanto meno interessanti per gli pneumologi. L’indagine ha preso in considerazione le capacità autogestionali, il benessere fisico e i sintomi depressivi. Lo studio sottolinea come i pazienti, indipendentemente dalla patologia di base, presentino una evidente correlazione fra sintomi depressivi, informazione e capacità autogestionali.
Uno studio sottolinea come i pazienti, indipendentemente dalla patologia di base, presentino una evidente correlazione fra sintomi depressivi, informazione e capacità autogestionali.
Un minore livello di depressione in tutte le patologie è quindi presente in pazienti con una più alta capacità di autogestirsi con maggiore consapevolezza. Lo studio conclude sottolineando l’importanza di educare il paziente ad autogestirsi come elemento di miglioramento dell’umore e del benessere fisico. Il che ci porta alla necessità di comunicare con il paziente anche in senso educazionale oltreché informativo 11. Una diagnosi di malattia cronica, evolutiva o a prognosi infausta, coinvolge inevitabilmente tutta la famiglia: il coniuge, i figli, la famiglia d’origine e per ognuno di essi rappresenta una fonte di stress. È fortemente influenzato da molti fattori, tra cui la fase del ciclo di vita, e varia con lo svolgersi della malattia, richiedendo in ogni momento un continuo adattamento. La famiglia può essere una risorsa per il malato, ma spesso viene percepita, e talvolta lo è, come un ostacolo. Ovviamente non si può prescindere da essa nell’obiettivo di migliorare l’adattamento e la qualità della vita del malato 12 13.
La famiglia, con la qualità delle interrelazioni nella loro complessità, influenza la rivelazione di fragilità e l’adattabilità dei singoli componenti come del suo complesso. Ad esempio la presenza di attriti e la mancanza di coesione al suo interno si associano a un maggiore stress emotivo 14.
Uno studio recente 15 che ha coinvolto 13 reparti di Medicina Interna in Canada ha esplorato le barriere psicologico-sociali in una corretta comunicazione a pazienti cronici. Lo studio è stato eseguito coinvolgendo medici strutturati, specializzandi e infermieri. Sono stati somministrati questionari mirati a indicare le problematiche di ostacolo al dialogo fra personale sanitario e pazienti sulla comunicazione delle cattive notizie. È stato restituito compilato circa l’80% dei più di 1.600 questionari distribuiti. I risultati hanno indicato nei familiari l’ostacolo più impegnativo. Le motivazioni vanno dalla logica protezionistica al disaccordo fra i familiari nel gestire la situazione. A distanza seguono le difficoltà linguistiche e le barriere culturali.
La famiglia può giovarsi nel difficile percorso di accettazione della malattia di interventi informativi ed educazionali.
La famiglia può giovarsi nel difficile percorso di accettazione della malattia di interventi informativi ed educazionali, che servono a chiarire le regole dei servizi e all’identificazione di punti di riferimento dell’équipe curante e che agevolano il processo di comprensione delle notizie riguardanti la malattia e il suo trattamento 16. Nell’ambito della famiglia dobbiamo considerare in particolare il soggetto che si assume direttamente il maggior onere dell’assistenza, non tanto solo fisica, ma soprattutto gestionale. Questo soggetto, il caregiver, generalmente un familiare di sesso femminile, costituisce un punto di riferimento importante e insostituibile anche nel rapporto comunicativo con il paziente e la parte rimanente della famiglia. In Italia un’indagine multiscopo nell’ambito del Censimento ISTAT del 2011 ha quantificato in più di tre milioni le persone che si prendono cura di adulti anziani, malati e disabili. Di solito si tratta di donne fra i 45 e i 55 anni che spesso svolgono anche un lavoro esterno, ma che nel 60% dei casi hanno dovuto abbandonarlo per prendersi cura a tempo pieno di chi non è più autonomo. In conclusione, fino a poco tempo fa il caregiver costituiva un gruppo di persone invisibili, confuso sullo sfondo familiare. Oggi la consapevolezza di un ruolo sostanziale e prezioso, il maggiore peso della famiglia e del paziente nel rapporto medico-paziente e, non ultima, la ristrettezza delle risorse in rapporto alla crescita della domanda assistenziale, hanno fatto di questa figura un punto centrale e determinante del sistema di cura delle malattie croniche 17.
Uno dei concetti più difficili da assimilare da parte dei professionisti sanitari è che quanto è evidente e ovvio per gli addetti ai lavori non lo è per il paziente e la sua famiglia. Naturalmente questo dipende dalla preparazione, dalla conoscenza dell’evoluzione della patologia, dall’esperienza del medico e, dall’altra parte, dalla diversa percezione dei problemi che si differenzia anche fra paziente e caregiver.
Una comunicazione efficace gioca un ruolo fondamentale nei meccanismi di adattamento alla malattia e facilita l’assunzione di decisioni anche impegnative, influendo sulla qualità di vita del paziente e dei familiari.
Una comunicazione efficace gioca un ruolo fondamentale nei meccanismi di adattamento alla malattia e facilita l’assunzione di decisioni anche impegnative, influendo sulla qualità di vita del paziente e dei familiari.
Come comunicare
Nell’approccio ragionato a un sistema di comunicazione è fondamentale recepire che il sistema di cura è ormai centrato sul paziente e non più sulla malattia. Il paziente diviene il soggetto del rapporto, con i suoi bisogni, i suoi valori e le sue preferenze. Questo nuovo processo assegna un ruolo attivo al paziente e richiede una forma di collaborazione produttiva fra medico e paziente 18.
La scuola anglosassone, pragmaticamente, ha costruito percorsi semplici e alla portata di tutti per sottolineare le modalità attraverso cui comunicare soprattutto le cattive notizie. Uno schema fra i più seguiti per la sua efficacia e semplicità è quello suggerito da W.F. Bayle (Tabella I) 19. Questo sistema, nato in ambito oncologico ma facilmente adattabile alla comunicazione in qualsiasi contesto, parte dall’organizzazione dell’ambiente (Setting), attraversa la comprensione della volontà del paziente e delle sue conoscenze (Perception, Invitation), comunica le informazioni in modo semplice e piano (Knowledge) e infine pianifica il percorso terapeutico costruendo un diario minuzioso dell’impegno futuro (Strategy) dopo essersi assicurato della corretta comprensione di quanto comunicato (Summary).
Il sistema SPIKES si presenta come un sistema facilmente seguibile e riproducibile, ma in letteratura ne sono presenti numerosi altri con lievi differenze.
Il sistema SPIKES (acronimo delle varie fasi) si presenta come un sistema facilmente seguibile e riproducibile, ma in letteratura ne sono presenti numerosi altri con lievi differenze. In epoca più recente è stato revisionato aggiungendo allo schema illustrato nella tabella un’altra “S”, quella che simboleggia il dollaro ($), in quanto la medicina moderna deve fare i conti con il costo delle cure che lievita in maniera esponenziale e il medico attualmente deve anche tenere conto di questo aspetto nelle opzioni che sottopone al paziente riguardo alle possibili scelte terapeutiche e assistenziali 20.
Cosa non bisogna dire
Per un paziente ricevere una cattiva notizia è di per sé un evento stressante: comunicarla in modo sciatto e sbrigativo aggrava la disperazione del paziente. La comunicazione è un momento cruciale che condiziona non solo l’accettazione della situazione, ma anche l’aderenza del paziente alla terapia. Mentre esistono numerosi studi che documentano l’importanza della comunicazione e la possibilità di migliorarne la qualità con un’adeguata preparazione, non esistono molte prove che la scelta di una terminologia di parole piuttosto di altre possa influenzare l’efficienza della comunicazione. In realtà l’esperienza ci insegna che la scelta dei vocaboli e della loro contestualizzazione riveste una grande importanza nel dialogo. Sappiamo che nell’ambito complesso della comunicazione l’aspetto verbale non è prevalente, ma non dobbiamo neanche sottovalutarne l’importanza.
Un’accurata scelta dei vocaboli può fare la differenza nel confermare la credibilità del medico, conservare la speranza nel paziente e mitigare l’impatto della notizia.
Un’accurata scelta dei vocaboli può fare la differenza nel confermare la credibilità del medico, conservare la speranza nel paziente e mitigare l’impatto della notizia. La prima cosa da considerare è la costruzione del messaggio verbale. Nel comunicare una diagnosi, possiamo sottolineare gli aspetti negativi o positivi della diagnosi stessa. Alcuni studi hanno dimostrato che l’individuo reagisce in modo differente a seconda del contesto in cui viene presentata la stessa comunicazione. Il medico tende naturalmente a usare espressioni meno gravi nel comunicare cattive notizie piuttosto che nel comunicare notizie buone. Una strategia verbale comunemente usata è l’uso di negazioni (ad es. “le devo dare notizie non buone”) piuttosto che affermative (ad es. “le devo dare notizie cattive”). L’uso della negazione può avere un costo perché implica da parte del comunicatore una aspettativa. Per esempio affermare “lei non morirà” può significare che il medico pensa, o almeno prende in considerazione, che il paziente possa morire. Tutto questo non è implicito nell’affermazione “lei vivrà”, in quanto non viene adombrato il concetto di morte. La negazione, inoltre, può dare l’impressione che il medico non sia sincero e nasconda la situazione reale. Il paziente è attento a cogliere qualsiasi sfumatura del messaggio che gli viene trasmesso dal medico, sia in modo esplicito che implicito, verbale, paraverbale o non verbale: dobbiamo stare molto attenti per evitare di creare un clima sfavorevole che non possiamo più recuperare in seguito. Nell’ottica di verificare l’impatto del linguaggio nella comunicazione delle cattive notizie, Burgers et al. 21 hanno tenuto con ciascun appartenente a un gruppo di circa 100 soggetti volontari sani americani e a un gruppo similare olandese una conversazione in cui veniva comunicata una malattia genetica incurabile poco nota, di cui venivano spiegate la patogenesi, la sintomatologia e l’influenza sulla vita di un ipotetico paziente. In questa conversazione sono stati usati sia contesti potenzialmente positivi ed, in alternativa, negativi; inoltre sono state usate sia costruzioni negative che positive in alternativa. Quindi è stato chiesto ai partecipanti di valutare le varie opzioni di comunicazione sintattica e le relative conseguenze sulla psicologia del paziente, il livello di fiducia nel medico e la potenziale aderenza terapeutica.
Il contesto positivo e la terminologia affermativa presentano un’influenza positiva sulla psicologia e il comportamento dell’interlocutore.
In breve, le conclusioni hanno indicato, in ambedue i gruppi nazionali, che il contesto positivo e la terminologia affermativa presentano un’influenza positiva sulla psicologia e il comportamento dell’interlocutore. Il risultato dello studio, pur limitato dalla qualità dei soggetti scelti (volontari sani), non sembra essere influenzato dalla nazionalità. Inoltre appare evidente che la valutazione del medico influenza l’aderenza del paziente al programma terapeutico.
Adottare un sistema come quello di Bayle e applicarlo serve a uniformare il meccanismo di comunicazione e a permettere a tutti i componenti dell’equipe medica di cercare una stessa modalità espressiva, nel rispetto delle individualità di ciascuno e del paziente. In realtà ridurre la comunicazione delle cattive notizie a un mero fatto meccanico tecnico è assolutamente non rispondente alla realtà. Ognuno di noi, anche nel contesto più arido e asettico, non può non sentirsi coinvolto emozionalmente nel rapporto con il paziente e la sua vicissitudine umana. Il termine “empatia” è nato negli anni ’20 per descrivere la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui.
Nelle intenzioni del primo utilizzatore del termine, E.B. Titchener 22, l’empatia, in alternativa alla simpatia, attraverso l’immedesimazione nell’altro, riconosceva all’osservatore la capacità di percepire le sensazioni emotive e condividerle 23. Tale abilità immedesimativa ha un costo in termini emotivi molto elevato. Per questo il medico si trova di fronte alla necessità non solo di comunicare le cattive notizie in modo corretto, ma anche di imparare a gestire le proprie reazioni emotive. I due obiettivi sono strettamente correlati in quanto spesso le difficoltà emotive non gestite finiscono per ostacolare il rapporto empatico. Oggi, più modernamente, si parla di empatia matura, in cui si mantiene la capacità di identificarsi nel soggetto interlocutore, mantenendo però un distacco essenziale che permette di sentire ma non di essere coinvolti emotivamente. Come è comprensibile, raggiungere una buona pratica è oltremodo difficile e non può essere oggetto di improvvisazione: la capacità istintiva di capire, che è propria di molti di noi, va affinata e coltivata per recepire compiutamente il messaggio empatico 24.
Conclusioni
Che comunicare non sia facile è esperienza comune a un osservatore non superficiale. Instaurare un rapporto comunicativo relazionale non è conseguenza di particolari attitudini innate, ma costituisce una abilità che può essere appresa. La comunicazione è stata infatti aggiunta fra le priorità formative dei futuri medici dalla Conferenza Permanente dei Presidenti dei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia 25 26. In attesa di un ricambio generazionale è necessario far acquisire questa abilità ai professionisti della sanità attualmente in campo. Inoltre dobbiamo tenere presente che l’organizzazione di un ambiente adeguato necessita di un ripensamento degli spazi dedicati a questo compito. Infine, non da ultimo, comunicare ha bisogno di tempi che oggi raramente il medico si può permettere e di formazione continua che preveda l’integrazione di gruppi multidisciplinari e il supporto di personale esperto nella gestione del sovraccarico emotivo 27.
Se comunicare è dunque una priorità nata da una necessità urgente che emerge dalla maggiore considerazione del paziente, dall’evoluzione della medicina e dall’esigenza di contenere il contenzioso sanitario, il medico deve essere messo in condizioni di poterlo fare nel modo migliore.
Comunicare non va inteso come un benefit aggiuntivo, ma come parte integrante della cura.
Figure e tabelle
Setting: far accomodare il paziente in uno studio confortevole, tranquillo, senza fonti di interruzione. |
Perception: accertare che cosa il paziente sa della propria situazione. |
Invitation: prima di parlare, cercare di capire che cosa il paziente desidera sapere circa la propria malattia. |
Knowledge: spiegare al paziente la malattia usando termini semplici e adatti alla sua cultura. Non enfatizzare né sminuire la gravità della patologia. |
Emotions: riconoscere le reazioni emozionali, comprenderne la ragione e offrire una risposta empatica. |
Strategy and summary: costruire e pianificare un percorso terapeutico assistenziale concreto e tangibile. Chiedere al paziente che cosa ha capito di quanto detto in precedenza. |
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