Le dichiarazioni anticipate di trattamento e l’amministrazione di sostegno
Abstract
La locuzione “dichiarazioni anticipate di trattamento” individua la volontà espressa da persona capace di autodeterminarsi circa i trattamenti sanitari ai quali intende essere o non essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia in atto e ad evoluzione nota ovvero per sopravvenute malattie imprevedibili, non fosse più capace di manifestare validamente le proprie determinazioni, designando in genere un fiduciario incaricato di decidere in sua vece. Nell’ordinamento italiano, manca una disciplina organica delle disposizioni anticipate, pur esistendo al riguardo una precisa indicazione nella cosiddetta convenzione di Oviedo, recepita nel nostro Paese con legge 28 marzo 2001, n. 145. Il tema è altresì trattato negli articoli 36 e 38 del codice di deontologia medica e nell’articolo 37 del codice deontologico dell’infermiere. Mancando comunque una legge specifica, l’istituto dell’amministrazione di sostegno è divenuto progressivamente strumento processuale adeguato per rendere effettive le dichiarazioni anticipate di trattamento. Tuttavia, alcuni decreti di giudici tutelari hanno evidenziato la carenza dell’interesse alla nomina di un amministratore di sostegno quando il suo dissenso risultasse meramente confermativo di quello già formalizzato in appositi moduli dalla persona e ribadito ai curanti. La proposta di legge n. 1.142 approvata alla Camera il 20 aprile 2017, all’articolo 4 disciplina la “pianificazione condivisa delle cure”, strumento innovativo e vincolante per il medico in caso di incapacità (evidentemente sopravvenuta) del paziente; esso è diverso dalle “disposizioni anticipate di trattamento” descritte dalla medesima proposta di legge all’articolo 3. La prima riguarda un processo che nasce e si sviluppa “nella relazione medico-paziente”, le seconde afferiscono ad attività di iniziativa della persona, non collocata nella relazione di cura con il medico. Dalla proposta di legge discende che è improprio interpretare l’adesione ad una pianificazione di cura come una dichiarazione anticipata di trattamento, la quale è ipotizzabile solo laddove non esista o non sia realizzabile una pianificazione delle cure.
Premessa
Le locuzioni testamento biologico, testamento di vita, living will, dichiarazioni anticipate di trattamento, disposizioni anticipate di trattamento, direttive anticipate di trattamento ed altre ancora individuano, con sfumature diverse, la volontà espressa da persona capace di autodeterminarsi circa i trattamenti sanitari ai quali intende essere o non essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia in atto e ad evoluzione nota ovvero per sopravvenute malattie imprevedibili, non fosse più capace di manifestare validamente le proprie determinazioni, designando in genere un fiduciario incaricato di decidere in sua vece.
Altra essendo la sede ove affrontare siffatta questione semantica, adotteremo l’espressione “dichiarazioni anticipate di trattamento”, conformemente al lessico coniato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel 2003 1, senza per questo voler dare un preciso valore al sostantivo prescelto rispetto agli altri, con riferimento soprattutto alla maggiore o minor cogenza (quale vincolo per il medico) che ognuno di essi esprime e comunque nel convincimento che si tratta di manifestazioni di volontà attinenti al “trattamento” e non alla “vita”.
I riferimenti normativi in Italia
Nell’ordinamento italiano manca una disciplina organica delle disposizioni anticipate 2, pur esistendo un preciso, invero scarno, riferimento nella cosiddetta convenzione di Oviedo, recepita nel nostro Paese con legge 28 marzo 2001, n. 145. L’articolo 9 di tale convenzione stabilisce che saranno “tenute in considerazione” – cioè valutate e non accolte incondizionatamente – le volontà precedentemente manifestate dalla persona che, nel momento del trattamento sanitario, non sia in grado di esprimere la propria volontà.
Nel vigente codice di deontologia medica (2014), il tema è introdotto nell’articolo 36 e trattato organicamente nell’articolo 38. Già nelle edizioni del 1998 e del 2006 esso contemplava, con formulazioni differenti, il dovere del medico di tenere conto delle volontà precedentemente manifestate dal paziente, attualmente non più capace di autodeterminarsi. Il testo degli articoli di interesse è vicino al contenuto dell’articolo 9 della convenzione di Oviedo.
1998: “Articolo 34. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso.”
2006: “Articolo 38. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato.”
Il vigente codice di deontologia medica si differenzia profondamente dalle due precedenti stesure, esprimendosi con maggior dettaglio in due passi distinti: l’articolo 36 affronta il tema delle dichiarazioni anticipate nell’assistenza in urgenza ed emergenza; l’articolo 38, la cui rubrica riporta “dichiarazioni” e non più – come nella versione del 2006 –”direttive” anticipate 3, riprende il principio del “tener conto” dei due codici previgenti ed aggiunge la descrizione di una procedura particolarmente analitica, invero non condivisa da tutti gli Autori 4-9, attribuendo inoltre al medico l’incombente di verificare la congruenza logica e clinica delle dichiarazioni anticipate con la condizione in atto.
2014: “Articolo 36. Il medico assicura l’assistenza indispensabile, in condizioni d’urgenza e di emergenza, nel rispetto delle volontà se espresse o tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento se manifestate.”
Articolo 36. Il medico assicura l’assistenza indispensabile, in condizioni d’urgenza e di emergenza, nel rispetto delle volontà se espresse o tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento se manifestate.
2014: “Articolo 38. Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale.”
Articolo 38. Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale.
La dichiarazione anticipata di trattamento comprova la libertà e la consapevolezza della scelta sulle procedure diagnostiche e/o sugli interventi terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati in condizioni di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l’espressione di volontà attuali.
Il medico, nel tenere conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto e ispira la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria.
Il medico coopera con il rappresentante legale perseguendo il migliore interesse del paziente e in caso di contrasto si avvale del dirimente giudizio previsto dall’ordinamento e, in relazione alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili.”
Il codice deontologico dell’infermiere (2009) reca un disposto analogo al testo della convenzione di Oviedo e al codice di deontologia medica del 2006: “Articolo 37 - L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato.”
La giurisprudenza italiana: l’amministratore di sostegno quale fiduciario della persona
La pur dettagliata regolamentazione introdotta con l’ultima versione del codice di deontologia medica non può ovviare al fatto che in Italia non esista una legge che disciplini organicamente la materia delle dichiarazioni anticipate di trattamento, affidata unicamente alle cure dell’interpretazione giurisprudenziale.
La regolamentazione introdotta con l’ultima versione del codice di deontologia medica non può ovviare al fatto che in Italia non esista una legge che disciplini organicamente la materia delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Emblematica al riguardo la vicenda di Eluana Englaro relativa al delicatissimo tema della sospensione del trattamento a persona attualmente incapace di autodeterminarsi e della quale erano da accertare le pregresse manifestazioni di volontà.
A sette anni di distanza dal tragico incidente subito dalla donna, il padre, nominato tutore, resosi conto delle gravissime ed irreversibili condizioni della figlia, chiedeva giudizialmente la sospensione dell’alimentazione artificiale e delle terapie, portando a supporto della richiesta testimonianze che evidenziavano l’inconciliabilità dello stato in cui si trovava (e dei trattamenti in atto) con le precedenti convinzioni della stessa sulla vita e sulla dignità individuale.
Con sentenza n. 21.748 del 16 ottobre del 2007, la Corte di Cassazione fissa i due presupposti in base ai quali si può giungere ad una interruzione delle cure:
- che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno”;
- che “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
La Suprema Corte riconosce che, in mancanza di direttive anticipate, sia possibile ricostruire la volontà del soggetto divenuto incapace, sulla base di elementi probatori chiari, univoci e convincenti.
La Suprema Corte riconosce che, in mancanza di direttive anticipate, sia possibile ricostruire la volontà del soggetto divenuto incapace, sulla base di elementi probatori chiari, univoci e convincenti.
In questi casi la figura del tutore, del curatore speciale o dell’amministratore di sostegno può rivelarsi utile al fine della ricostruzione della più autentica e genuina voce del beneficiario. Il rappresentante legale, infatti, non agisce al posto dell’incapace, ma con l’incapace al fine di dare voce alla sua volontà e dignità.
L’iter giurisprudenziale relativo alla vicenda Englaro ha avuto inizio nel 1999, prima dell’approvazione della legge 9 gennaio 2004 n. 6, la quale modificava il codice civile introducendo, accanto ai tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, un nuovo istituto di protezione: l’amministrazione di sostegno. Questo istituto ha l’obiettivo di “tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte dell’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente (art. 1 l. 6/2004).” I presupposti applicativi dello stesso sono individuati in un’infermità ovvero in una menomazione fisica o psichica e nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.).
Già la primissima letteratura giuridica e medico-legale 10-12 in materia evidenziava come l’amministratore di sostegno sia investito della gestione non solo degli interessi riconducibili alla sfera patrimoniale, ma anche della cura – globalmente intesa – della persona. L’amministrazione di sostegno si è così affermata come l’istituto applicabile per promuovere la salute del beneficiario. Nei primi decreti, i giudici tutelari incaricano l’amministratore del sostegno della persona in condizione attuale di fragilità della scelta del trattamento medico più appropriato. Dopo qualche anno, a cominciare, per quanto pubblicato, da due decreti del Tribunale di Modena, del 13 maggio 2008 e del 5 novembre 2008, l’amministrazione di sostegno diviene progressivamente strumento processuale adeguato onde veicolare e rendere effettive le dichiarazioni anticipate di trattamento 13-20.
Il primo decreto riguardava una donna affetta da sclerosi laterale amiotrofica, con quadro neurologico in progressione e grave insufficienza respiratoria in ventilazione meccanica non invasiva continua. La volontà della donna era di non essere sottoposta a determinati trattamenti sanitari, nel momento in cui avrebbero potuto essere giudicati utili per la sopravvivenza; la persona era psichicamente integra, consapevole della propria malattia e di come l’aggravio avrebbe imposto manovre rianimatorie comportanti tracheotomia. Per realizzare le proprie aspirazioni, la donna presentò ricorso al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno. A mente del legislatore civile, “l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità” (art. 408 c.c.).
L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità (art. 408 c.c.).
Pertanto, il beneficiario può affidare alla persona designata istruzioni precise, anche circa i trattamenti sanitari, che è concretamente prevedibile saranno proposti, in determinate situazioni, dai medici curanti. Nella specifica vicenda, il giudice tutelare ha dichiarato la legittimità della scelta della donna, che l’amministratore di sostegno è chiamato a rendere effettiva con la “negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare ventilazione forzata e tracheotomia”. Grava sull’amministratore di sostegno l’onere di vigilare che “la beneficiaria non manifesti una volontà opposta” e di chiedere “le cure palliative più efficaci al fine di annullare ogni sofferenza alla persona”. Sulla base del provvedimento del giudice tutelare e della volontà espressa per il tramite dell’amministratore di sostegno, i medici hanno rispettato la volontà consapevole della donna riguardo la evoluzione naturale della malattia.
Successivamente, i giudici tutelari si sono pronunciati anche su ricorsi presentati da persone senza attuali o imminenti problemi di salute. Da un’analisi 21 dei decreti pubblicati in riviste o comunque disponibili riguardanti questa materia, emergono le seguenti situazioni schematiche:
- nomina dell’amministratore di sostegno per manifestare ai curanti la volontà, espressa precedentemente o ricostruibile, del beneficiario attualmente incosciente;
- nomina anticipata dell’amministratore di sostegno, giustificata dalla probabile e imminente perdita di capacità del beneficiario;
- nomina anticipata dell’amministratore di sostegno su ricorso del beneficiario competent (pienamente consapevole) e in salute per l’eventualità di una futura impossibilità di provvedere ai propri interessi.
La Corte di Cassazione precisa che la procedura giudiziale di nomina dell’amministratore di sostegno “implica il manifestarsi della condizione di infermità o incapacità della persona”.
La Corte di Cassazione, con sentenza 20 dicembre 2012, n. 23.707 22, precisa tuttavia che la procedura giudiziale di nomina dell’amministratore di sostegno “implica il manifestarsi della condizione di infermità o incapacità della persona”, potendo quindi essere avviata solo in caso di impossibilità attuale di provvedere ai propri interessi.
La designazione di un amministratore di sostegno per l’ipotesi, marginale all’atto della designazione, di una futura incapacità non produce effetti se non sul piano privatistico; per convertire la designazione in nomina si renderà indispensabile un intervento del giudice tutelare, ma solo nel momento in cui insorga l’esigenza di protezione. Alcuni giudici tutelari si sono discostati motivatamente da questo principio di diritto (Tribunale di Modena – decreto 24 febbraio 2014).
Il tema della sospensione delle cure è affrontato per la prima volta, con riferimento all’amministrazione di sostegno, dal Tribunale di Cagliari con decreto del 16 luglio 2016, relativo alla persona di Walter Piludu 23 24. Questi, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, portatore di tracheotomia e PEG, in respirazione ed alimentazione artificiali, con sindrome da immobilizzazione muscolo-scheletrica, psichicamente integro, consapevole, che si relazionava solo con un comunicatore acustico con comandi oculari, chiedeva l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale, previa sedazione. Il giudice tutelare autorizzava il distacco del respiratore secondo manifestazione di volontà da parte dell’amministratore di sostegno in caso di sopravvenuta totale incapacità. Ciò avrebbe dovuto avvenire con la somministrazione “di quei soli presidi atti a prevenire ansia e dolori e nel solo dosaggio funzionale a tale scopo” e secondo modalità atte a garantire un “adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona, prima, durante e dopo la sospensione del trattamento”.
La pianificazione condivisa delle cure
La proposta di legge n. 1.142 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, approvata alla Camera il 20 aprile 2017, attualmente all’esame della Commissione Sanità del Senato, all’articolo 4 disciplina la “Pianificazione condivisa delle cure”, specificando che il contenuto della pianificazione è vincolante per il medico in caso di incapacità (evidentemente sopravvenuta) del paziente.
Tale pianificazione rientra nella relazione di cura: deve essere “condivisa” ed attiene – parrebbe unicamente – “all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”. Essa è indicata come meramente possibile (“può”): per esempio, potrebbe non essere realizzabile laddove l’autonomia del medico entrasse in conflitto con quella del paziente.
La pianificazione condivisa delle cure è uno strumento innovativo attraverso il quale il paziente esprime una volontà cui il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente versi nella condizione di non potersi autodeterminare.
Stante la possibilità di casi sia di mancato raggiungimento della condivisione sia di patologie non caratterizzate dai requisiti citati, è evidente che non per tutti i pazienti potrà essere realizzata la pianificazione condivisa delle cure.
Pur con questa discriminazione, essa è uno strumento innovativo attraverso il quale il paziente esprime una volontà 25 26, cui il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente versi nella condizione di non potersi autodeterminare.
Parimenti, stando all’articolo 26 del codice di deontologia medica, “il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi …, registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione”. Così non prevedendo che, in caso di sopravvenuta incapacità del paziente, il contenuto della pianificazione “anticipata” vincoli il medico. Tuttavia essa esprime la volontà consapevole del paziente, attuale e valida oltre il momento della sua espressione ed alla quale, pertanto, occorre che il medico si conformi.
La pianificazione anticipata delle cure è dunque strumento diverso dalle “disposizioni anticipate di trattamento” disciplinate dalla medesima proposta di legge all’articolo 3, secondo il quale “ogni persona maggiorenne, capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata fiduciario, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.”
Pianificazione anticipata delle cure e disposizioni anticipate di trattamento sono strumenti diversi.
La prima riguarda un processo che nasce e si sviluppa “nella relazione medico-paziente” 27 28, le seconde afferiscono ad attività di iniziativa della persona, non collocata nella relazione di cura con il medico. Queste ultime individuano infatti come soggetto agente la “persona”; le altre vengono invece riferite al “paziente” 29.
Analoga lettura emerge in parte della giurisprudenza di merito in materia di amministrazione di sostegno e dichiarazioni anticipate, inducendo così ad una riflessione più ampia sul significato di queste ultime. Un decreto del Tribunale di Mantova del 24 luglio 2008 evidenzia la carenza dell’interesse alla nomina di un amministratore di sostegno perché il dissenso dallo stesso manifestato risulterebbe meramente confermativo di quello già formalizzato in appositi moduli dalla persona e ribadito dal paziente stesso ai curanti; un decreto del Tribunale di Genova del 6 marzo 2009 argomenta che “di fatto la misura di protezione non apporterebbe alcun valore aggiunto rispetto alla ferma volontà sino a quel momento espressa direttamente dall’inferma, adeguatamente documentata e giornalmente verificata dai medici, e che dovrà, comunque, essere tenuta in doverosa considerazione dai sanitari”.
Viene così implicitamente enunciato il principio della inutilità del ricorso all’amministrazione di sostegno come strumento per rendere effettive le disposizioni anticipate di trattamento quando esse corrispondono alla volontà manifestata ai curanti, attualmente o in precedenza, dalla persona, informata e consapevole. Anzi, al cospetto di un progetto di cura concordato con i professionisti sanitari, non si versa affatto in ipotesi di disposizioni anticipate di trattamento, ma piuttosto di pianificazione anticipata delle cure.
Alcune riflessioni conclusive
Nate per garantire la persistenza nel tempo della volontà della persona, le disposizioni anticipate di trattamento rischiano di dover fronteggiare un allargamento del concetto che giunga a comprendere nella locuzione manifestazioni di volontà che di fatto sono attuali e non anticipate.
Due sono gli equivoci possibili.
Il primo è legato all’oggetto delle manifestazioni di volontà, che non va identificato semplicisticamente nel singolo atto terapeutico di imminente esecuzione, ma è costituito da un progetto di cura, protratto nel tempo e concordato nel suo complesso. Il secondo è relativo al momento di manifestazione della volontà e segnatamente del rifiuto di cure: l’attualità del rifiuto va concepita in senso logico e non meramente cronologico, come sottolineato dalla più attenta dottrina 30. Altrimenti ragionando, ogni volontà non strettamente contestuale al singolo atto medico risulterebbe invalida perché non attuale. Il rifiuto, manifestato al medico dalla persona globalmente informata e consapevole del progetto di cura, continua a essere attuale e valido oltre il momento della sua manifestazione, per cui è improprio interpretarlo come direttiva anticipata di trattamento, quando insorga, come prospettato, lo stato di incoscienza.
Questa prospettiva mette in discussione il ricorso all’amministrazione di sostegno come strumento per rendere effettive le disposizioni di trattamento, erroneamente intese come anticipate, in particolare quando la volontà sia stata espressa dalla persona, malata, consapevole della evoluzione della malattia, informata e consenziente circa il progetto di cura definito dai medici. In tal caso, non è necessario ricorrere all’amministrazione di sostegno per supportare le decisioni – conformi al progetto di cura – del medico.
Il rischio è quello di trasformare uno strumento ideato per la tutela di soggetti fragili in un mezzo volto a proteggere i professionisti sanitari.
Così, il ricorso all’amministratore di sostegno, quale fiduciario posto a tutela delle disposizioni anticipate, troverebbe giustificazione in assenza di una patologia evolutiva in atto, riguardando situazioni meramente ipotetiche. Di talché, le disposizioni andrebbero intese come “anticipate” rispetto alla sussistenza della malattia piuttosto che alla necessità del trattamento.
Tale linea interpretativa stride rispetto al tenore della succitata giurisprudenza di legittimità, ma ben si concilia con lo spirito della proposta di legge all’attenzione del Parlamento, che distingue le disposizioni anticipate di trattamento dalla pianificazione condivisa (e non “anticipata”) delle cure 31.
Quest’ultima concerne, appunto, la “cura” come valore preminente della prestazione professionale riguardo una patologia cronica, invalidante o a prognosi infausta, con caratteristiche evolutive e trattamenti prevedibili, punto di riferimento nelle scelte della persona e cardine, quindi, della relazione fra paziente e medico. La cura difficilmente si esaurisce in un’attività singola: oggetto delle manifestazioni di volontà del paziente è pertanto un progetto globale e condiviso, che non ha senso definire anticipato. La pianificazione delle cure contiene una manifestazione di volontà intrinsecamente persistente, perché espressa in relazione alla prevista proiezione futura di una realtà attuale.
Dalla proposta di legge discende che è improprio interpretare questa volontà di adesione ad una pianificazione di cura come una dichiarazione anticipata di trattamento, la quale è ipotizzabile solo laddove non esista o non sia realizzabile una pianificazione delle cure ed il cui oggetto è costituito dalla generica previsione di condizioni di incapacità ad autodeterminarsi legate ad alterazioni patologiche future o, se già in atto, prive di pianificazione condivisa delle cure 32.
Il medico dovrà impegnarsi per rendere concreto il diritto del paziente a manifestare la propria consapevolezza e a esprimere le proprie aspirazioni ed i propri desideri all’interno della pianificazione condivisa delle cure.
Il medico, nell’ambito dell’alleanza di cura, dovrà impegnarsi per rendere concreto il diritto del paziente a manifestare la propria consapevolezza e a esprimere le proprie aspirazioni ed i propri desideri all’interno della pianificazione condivisa delle cure.
Nota degli Autori
Il presente articolo è stato inviato per la pubblicazione alcuni giorni prima che il Senato approvasse la legge 22 dicembre 2017, n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Il corrispondente progetto di legge – nel testo poi definitivamente approvato – è reiteratamente citato nel nostro lavoro, quale approdo della gestione delle disposizioni anticipate nel nostro Paese, secondo i canoni logici preannunciati dalla giurisprudenza relativa all’amministrazione di sostegno. L’entrata in vigore della normativa non priva dunque di significato e di attualità le riflessioni svolte, che focalizzano il punto di arrivo delle questioni giuridiche prima della legge n. 219, che, del resto, rappresentano i presupposti stessi dell’odierna riforma. La doppia previsione di disposizioni anticipate e di pianificazione condivisa delle cure operata dalla legge n. 219 può essere compresa pienamente solo riferendosi al dibattito inerente il diverso contenuto dei decreti dei vari giudici tutelari relativi all’amministrazione di sostegno che anticipano la diversità concettuale fra disposizioni anticipate e pianificazione condivisa delle cure.
Inoltre, l’esperienza dell’amministratore di sostegno, quale fiduciario della persona, rappresenta, nell’opinione degli Autori, un concreto strumento interpretativo nella specifica applicazione della legge n. 219, che prevede proprio la figura istituzionale del fiduciario, in caso sia di dichiarazioni anticipate sia di pianificazione condivisa delle cure.
È poi da considerare che la legge n. 219 disciplina i casi nei quali la persona abbia redatto le disposizioni anticipate di trattamento oppure abbia ottenuto dal medico la pianificazione concordata delle cure. La legge non prevede tuttavia le situazioni in cui il paziente sia incosciente e si prospetti la questione della sua volontà circa il rifiuto di determinati trattamenti, manifestata precedentemente ma non formalizzata secondo le previsioni della legge n. 219. In queste situazioni, che la legge non contempla, non esistono altre alternative se non quella per cui i caregiver della persona si attivino per ottenere la nomina dell’amministratore di sostegno, informando il giudice tutelare che il soggetto in precedenza aveva dichiarato, quale propria aspirazione, il fatto di non subire determinati trattamenti sanitari in alcune specifiche condizioni cliniche.
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